A Torino La Stampa è un’istituzione. E poiché la massima istituzione resta la Fiat, e la proprietà de La Stampa è Fiat, La Stampa non è un’istituzione qualsiasi. Un tempo c’era La Gazzetta del Popolo. Poi è arrivata Repubblica, ma “La Busiarda”, amata e non, come sa ogni torinese, resta l’imprescindibile punto di riferimento di ogni mattina, che la si riceva sullo zerbino di casa o la si scarichi sull’i pad.
Di più, Torino è una città di misure provinciali ma di orizzonti europei, e il suo giornale, così elegante e arioso, così ferrato sugli esteri ne è lo specchio fedele. Per questo fare il giornalista significa lavorare a La Stampa, per questo quel che accade a La Stampa è cosa comune, che sia un cambio di grafica o un prepensionamento. Un cambio di sede, poi. Quando l’altr’anno si sono trasferiti tutti armi e bagagli dalla storica di via Marenco, col parco del Valentino a due passi e la vista malinconica e dolcissima sul Po, sulle colline, dove i giornalisti passeggiavano nella pausa pranzo sbriciolando grissini alle anatre, è stato un altro, fatale, segno di un’epoca al tramonto, di una crisi in atto che costringe perfino La Stampa a cercare sistemazioni più economiche e sobrie.
Ora la redazione sembra allocata in una succursale terrestre dell’Enterprise, e ci ha guadagnato in lindore, spazio, modernità. Ma la nostalgia per i corridoi un po’ fanè, per gli uffici al posto degli open space serpeggia, e si conosce. All’ingresso di un palazzone anonimo di un quartiere popolare e dietro la stazione, dietro la kasbah di san Salvario, si entra nel tempio dell’informazione da un atrio accecante di luce, dove troneggia un metal detector. Tempi bui, quelli in cui un giornale si annuncia con la cautela, con il sospetto, la paura. Ma come ogni giornale, anche La Stampa ha pagato il suo prezzo alla più vile delle lotte politiche, e magari rasentasse la follia.
Chi ha solo più di quarant’anni ricorda bene che Torino, più di altre città, scontò la ferocia, il terrore degli anni di piombo. E poiché La Stampa era, è la Fiat, nell’immaginario ottuso e malefico di qualche illuso di combattere per la classe operaia l’identificazione col male assoluto è stata esercizio facile (gli operai invece lavoravano e cercano oggi lavoro, sono i borghesotti nullafacenti e ben remunerati in famiglia ad agitarsi di più). Un bersaglio da colpire, i suoi giornalisti correi, colpevoli dunque. Chi ha solo più di quarant’anni anni ricorda la morte barbara di Carlo Casalegno, suo vicedirettore, uomo dabbene e giornalista di razza, ammazzato sul portone di casa, dove tornava per un boccone con la moglie, senza scorta, che aveva rifiutato per rigore morale e buona fede. Quattro colpi in faccia, tredici giorni di agonia.
Per dire che un pacco bomba alla Stampa evoca fantasmi più che altrove. Che un pacco bomba a La Stampa rimembra anni in cui il giornale ogni mattina era per il bollettino dei morti o dei gambizzati. Quello arrivato anonimo, e con indirizzo anonimo alla redazione, l’altro giorno, non è esploso. Doveva esplodere, doveva ferire, far male, se non uccidere. Doveva soprattutto far paura, e in questo ci è riuscito. Non solo al povero fattorino che l’ha avuto tra le mani, che conserva intatte per un benevolo malfunzionamento dell’innesco, ma ai giornalisti, a tutti gli uomini che credono che le idee si portano avanti con la ragione, la dialettica, il confronto civile, non con la brutalità. Eppure, sono tempi in cui la brutalità è esaltata come mezzo principe di resistenza, e poco importa se si dichiara pacifica. Non si è mai pacifici con in testa caschi e passamontagna, con spranghe e tenaglie per tagliare recinzioni, con sassi e peggio da lanciare contro i poliziotti. Quando si grida che lo Stato è assassino, quando urlare affanculo è lo strumento politico per eccellenza, anche per nascondere incapacità, impreparazione, rabbia cieca e inconcludente.
Descrivo scenari noti perché è tra le frange dell’insurrezionalismo No Tav che gli inquirenti stanno indagando per rilevare la paternità del fallito attentato. Sarà anche un pazzo solitario, ma è tra le pieghe di una marginalità anarcoide che può nascondersi, come è già successo, la miccia per far saltare i nervi alle istituzioni, e chi li rappresenta. Erroneamente, un giornale, perché comunque la si pensi, un grande giornale ospita tante voci, è occasione, proposta, sfida, non può nuocere. Se anche occulta o sbaglia, prima o poi lo si viene a sapere. I giornalisti cercano notizie, non sono servi dello Stato. I giornalsti debono poter scrivere liberamente, anche se descrivono come delinquenti dei manifestanti, anche se esprimono una posizione politica, per esempio, di compromesso, in cerca di intese, che la situazione attuale richiede. E i fattorini e gli uscieri non devono diventare esperti in criminologia scientifica.
Chi ha solo più di trent’anni, non è troppo lontana l’epoca, ricorderà che alla vigilia di un’importante elezione di un capo dello Stato, con il paese in crisi e in stallo, fu un attentato terribile a sbloccare improvvisamente la situazione. Era la strage d Capaci. Che ci siano risparmiati tempi simili, che siamo preservati dall’obbligo di dare un governo al paese sotto minaccia di armi e bombe.