GUAYAQUIL (Ecuador) — Sono arrivati nella notte, a bordo di corriere o a piedi. Hanno aspettato per ore, sotto il sole, bagnati dall’afa di Guayaquil. Rosari al collo, asciugamani o giornali in testa, tra le mani le immagini più care da far benedire a Francisco, il papa del popolo, il successore di Pietro che torna, dopo trent’anni, in Ecuador. La folla che attendeva il pontefice nel Parque de los Samanes era gente di fede: volti scuriti dalla fatica, abiti semplici, mani callose che si sono agitate impazzite quando Francesco ha raggiunto l’immensa area attrezzata per raccogliere oltre un milione di persone. Alla fine ne è venuto qualcuno in meno, colpa del caldo, e di quei 379 ettari con molte istallazioni, campi sportivi e lunghi viali, ma pochi alberi. Un paradosso per un parco che il governo ha inaugurato nel 2013 per farne il fiore all’occhiello delle politiche verdi di Correa.
Per un giorno la “Guayaquil ecologica” è diventata un immenso santuario a cielo aperto, puntellato da gazebi bianchi sotto cui volontari in giallo custodivano il Santissimo Sacramento. Un distesa di gente, l’immagine più vera e commovente della religiosità ecuadoriana, che si è ritrovata in quell’uomo vestito di bianco, umile e familiare, che parla la stessa lingua e ama le stesse cose. Francesco come sempre si è concesso, nonostante il nuovo volo a poche ore dalla conclusione dell’altro, oltre lo spaesamento per un fuso orario micidiale, incurante degli sbalzi termici e di altitudine che nel giro di una manciata di ore gli avevano fatto assaggiare l’aria delle Ande e quella del Pacifico. Dai 2800 metri di Quito al livello del mare, per tuffarsi nel cuore del popolo ecuadoriano, tra quei contadini silenziosi e certi che non fanno altro che ricordare la distanza che separa la visita di oggi da quella del 1985, di un altro Papa, in quello che era un altro paese.
Papa Francisco, amico della gente, gridavano, mentre lui a bordo di una macchina scoperta attraversava il parco. Con il Papa tra loro, la celebrazione eucaristica poteva iniziare, in un silenzio irreale in cui l’allegria ecuadoregna ha lasciato il posto al raccoglimento e all’ascolto. Francesco, ispirato dall’episodio evangelico delle nozze di Cana, ha parlato di Maria, la madre attenta che si accorge della mancanza del vino, il segno della gioia e dell’amore. Quel vino che manca in tante famiglie, segnate da fragilità e assenze, da abbandoni e problemi. Famiglie che come la madre del Signore devono imparare a pregare, ad andare oltre le preoccupazioni e le sofferenze per scoprire il servizio, il criterio del vero amore.
Un’omelia bella, quella di Francesco, forse una delle più intense dedicate alla famiglia, chiamata ancora una volta chiesa domestica, ma anche ospedale, quello “da campo” più vicino. Una ricchezza sociale, una specie di bottino da non sperperare, che deve essere potenziato da governi e comunità, quelli che proprio nei confronti della famiglia hanno un “autentico debito sociale”. Nella famiglia i miracoli si fanno con quello che c’è, ha detto il Papa, non si scarta nulla e niente è inutile. E nell’anno in cui la Chiesa si appresta a celebrare il sinodo ordinario, Francesco ha invitato a non scandalizzarsi, perché anche ciò che sembra impuro può essere trasformato, come l’acqua di Cana, in vino. Ma senza dubbio il passaggio più intenso è stato quell’invito a sussurrarsi, fino a crederci, la verità di un Dio che si avvicina sempre a chi è disperato e senza amore. Come nel racconto evangelico di Cana, per tutte le famiglie del mondo, il vino migliore deve ancora arrivare. La buona notizia da cui ricominciare a fare famiglia.