Due alpinisti trevigiani sono stati recuperati in extremis, dopo una notte passata appesi, a 300 metri da terra, dondolando nel vuoto. Si dirà: gli è andata bene, altri due inesperti o troppo presuntuosi puniti dalla natura. Uno al giorno, d’estate, al mare o in montagna. Imprudenze con esito già scritto, e si alzi un cero se non c’è il morto.
Però, immaginate la scena, cercate di visualizzare quelle montagne, le Tre Cime di Lavaredo. Tre denti di titano, tre scaglie di drago sepolto nella notte dei tempi, tre mani alzate al cielo, solo pietra, grigia, gialla e luccicante. Non puoi guardarle senza sognare la cima, e beato chi ha la forza e la grinta per provarci, osa la sfida, con rispetto e passione. Non c’è nulla di più umano e grandioso, è questo desiderio di altezze che muove la storia.
Non erano due pivelli, gli alpinisti che hanno tentato l’impresa. Maturi, del luogo (uno trevigiano, uno di Castelfranco), avevano attaccato lo spigolo chiamato Demuth della punta ovest delle Tre Cime. Una via di quinto grado, con una discesa erta, ma già provata, alla loro portata.
Una distrazione, imperdonabile, che racconta sempre del limite, del necessario monito che vien dato agli uomini, perché non si sentano dei. Sono scesi dalla parte sbagliata, e uno dei due compagni si è trovato sospeso a sette metri dalla parete, con trecento metri di vuoto sotto di lui. Inutile provare ad altalenarsi per aggrapparsi alla roccia. Inutile cercare di risalire al terrazzino dove l’amico s’è appollaiato.
Per fortuna che ci sono i telefonini, e pazienza se gli scalatori di un tempo storcerebbero il naso. Accettare le sfide non vuol dire immolarsi alla Natura matrigna. Il 118 è stato avvisato, proprio mentre calavano le prime ombre della sera. Siamo in un film, infatti. “Non subito, verranno, ma è brutto tempo, non vedono bene. Se s’appoggiano male, fanno rotolare sassi, tu rischi per primo”. Quando? “All’alba”.
L’alba è domani, futuro remoto, con in mezzo ore di notte, di freddo, minuti di pensieri e di attese, di speranze e terrore. L’alba. Potrebbe non arrivare. Ci si rannicchia, appesi nel vuoto. Si cerca di muovere uno a uno qualche muscolo, perché non s’intorpidiscano, confidando ancora una volta nei moschettoni di ferro, nei chiodi che t’assicurano alla montagna. Solo, l’uno, a guardare la più bella notte del mondo, come la prima del mondo, e chissà se la paura gli avrà fatto gustare il miracolo di quel silenzio. Solo, l’altro, sullo sperone di pietra, a inventare racconti, a suggerire rassicurazioni e preghiere, che non è meglio la morte, se la guardi in un amico che ti è accanto, e si affida a te per non morire.
Soli entrambi e insieme, uomini veri, a tirar fuori tutto il coraggio e la tempra che mai avrebbero creduto di avere. Non pianti, né imprecazioni, per non irritare quei monti, severi e minacciosi, nel buio. Altro che Spiderman e James Bond, quando saltano giù dagli aerei in volo e s’attaccano ai grattacieli trastullandosi tra le antenne. Il montaggio qui non può essere rapido, i brividi te li sudi uno a uno, la suspense è così lunga da sfiancarti, e lasciare infine che l’aria ti culli, non rassegnato, ma quasi sereno, in attesa.
Verrà, forse già viene, il destino. Che s’è presentato questa volta nelle brume che diradavano sul bianco accecante dell’alba, come da copione. Elicotteri, manovre al millimetro, due ganci poderosi di 60 e 13 metri, hanno strappato via i due amici alla montagna, stavolta.
Storia di altri eroi, quella dei soccorritori, epica quotidiana. Per stavolta, non hanno stretto il cuore, raccolto oggetti sperduti da riportare ai parenti; hanno ricevuto un grazie, un abbraccio, la consolazione di vedere due uomini nuovi, cambiati. Che si sono voltati alla cima, mentre andavano via, due dita alla tempia destra, un saluto. Un arrivederci.