Con l’approvazione del controverso Protection of Life During Pregnancy Bill 2013 (Protezione della vita durante la gravidanza), l’Irlanda ha fatto un altro passo, forse due o tre, nella direzione di un facile accesso all’aborto. Dal punto di vista “pro-choice” (in favore della libertà di scelta), questa è la “vittoria” senza dubbio più significativa in oltre trent’anni di agitazioni. Malgrado il governo insista che questa legge non fa altro che “chiarire” la situazione esistente, è evidente che essa può aprire molte porte a una regolamentazione più “progressista”.
Questa legge ha la sua origine in una lunga serie di controversie nelle quali diverse donne incinte hanno acquisito, talvolta anonimamente, talvolta no, una posizione iconica nel dibattito pubblico in Irlanda.
L’ultimo caso è stato quello di una donna indiana, Savita Halappanavar, morta in ospedale lo scorso ottobre in conseguenza di un’infezione. Il marito ha dichiarato che la moglie aveva chiesto più volte di abortire, ma che la sua richiesta era stata rifiutata ogni volta, perché era udibile il battito cardiaco del feto. Ha anche dichiarato che era stato detto loro che questa era la legge e che “questo è un Paese cattolico”.
Questa versione è stata diffusa in ogni parte del mondo, insieme all’idea che Savita era morta in un Paese oscurantista, un Paese ossessionato da sottigliezze teologiche e concezioni sorpassate. Ci sono voluti sei mesi prima che la verità emergesse: l’inchiesta sulla morte di Savita ha rivelato numerose mancanze procedurali, accanto a una certa confusione nella corretta interpretazione della legge, che riconosce uguali diritti alla protezione di madre e bambino, fino al momento in cui la vita della madre sia in pericolo.
L’inchiesta ha anche posto in evidenza che in nessun momento sarebbe stato possibile un aborto legale con qualche possibilità di salvare la sua vita. È poi risultato che la frase “questo è un Paese cattolico” era stata detta da un’ostetrica ai margini della questione e solo come commento alle origini della legge. Quindi, era stata detta nel corso di una conversazione occasionale non collegata alle questioni relative al trattamento medico di Savita.
Il caso Halappanavar, tuttavia, ha fatto sì che si riaprisse l’intero dibattito in tema di aborto, compresa una questione sorta vent’anni fa, nel 1992, quando a una ragazza di quattordici anni violentata da un vicino fu concesso, dalla Corte Suprema, di abortire in base al fatto che quella gravidanza l’avrebbe indotta al suicidio. Questo caso, noto come “caso X”, non è mai stato regolato per legge ed è tornato alla ribalta con la tragedia di Savita, portando alla proposta del Protection of Life During Pregnancy Bill.
Per ironia, la situazione attuale ha le sue radici in un emendamento del 1983 alla Costituzione irlandese, che si proponeva di blindare la protezione del bambino non nato. Sfortunatamente, l’effetto dell’emendamento da un punto di vista legale è stato di mettere in contrapposizione i diritti della madre con quelli del figlio, lasciando i dettagli dell’applicazione alla decisione dei vari tribunali, che hanno teso ad adeguarsi all’ideologia o all’onda dell’opinione pubblica, dipendenti a loro volta dalle circostanze particolari relative all’ultimo caso di risonanza pubblica.
Paradossalmente, quindi, l’apertura all’aborto della legislazione irlandese può essere attribuita, in ultima analisi, al tentativo dei pro-life di ottenere una completa protezione costituzionale per il non nato.
Anche la nuova legge potrebbe nel tempo portare a risultati inaspettati. Un possibile esito deriva dal fatto che la legge non prevede limiti di tempo per l’aborto e questo, insieme all’introduzione nella legislazione irlandese, per la prima volta, della possibilità del suicidio come motivo per abortire, può aprire la porta a un regime estremamente “progressista” sull’aborto.
La clausola sul suicidio prevede una procedura rigorosa, che comporta la firma di diversi medici all’autorizzazione dell’aborto per il rischio di suicidio, ma c’è chi fa notare che, nel caso di intenzioni suicide, le condizioni sono decisamente diverse da una normale situazione medica. In alcuni casi, si fa presente, proprio l’esistenza del figlio è alla base della propensione al suicidio e che, quindi, il problema permane fintanto che il bambino vive.
La conseguenza è che la “soluzione” della minaccia di suicidio della donna potrebbe richiedere la deliberata uccisione del bambino, anche quando il bambino avesse raggiunto la possibilità di sopravvivere al di fuori del grembo materno.