In prossimità di Zermatt, in alta quota, con il vento che ti accarezza e uno strano senso di vita che ti afferra il cuore, ti senti invincibile. La bellezza, la percezione vivida di esistere e la compagnia degli altri generano nell’uomo un sentimento di onnipotenza difficile da riprodurre: sembra d’un tratto che tutto sia possibile, che niente di male possa accadere e che qualunque cosa possa essere superata e vinta. Potrebbe essere una percezione alterata della realtà e delle sue ultime conseguenze la causa della morte di un gruppo di alpinisti impegnati in una delle grandi classiche d’alta quota, la Houte Route tra Chamonix e Zermatt sul confine tra l’Italia e la Svizzera. Le cronache di queste ore parlano di tormenta improvvisa, di notte all’addiaccio, di una tragedia apparentemente inspiegabile. Chi va in montagna, al contrario, sa che molte cose magari sono inesprimibili, ma tutte sono perfettamente spiegabili. Capita che si perda il senso del limite, del confine, del lecito e del proibito, convinti che ciò che si sta sperimentando possa fronteggiare tutto, dribblare le conseguenze, restituirci una sorta di perduta immortalità.
È l’eterna tentazione dell’uomo, quella di far fuori una dimensione della realtà, di presumere che in fondo si possa ricreare quello spazio di liquido amniotico in cui non si sente più nulla, non si prova più niente se non la forza e la pace di un Io che, quasi panteisticamente, si è fuso col tutto. A volte è la magia del gruppo, altre l’ebbrezza di un’adolescenza dura da abbandonare, altre ancora il grido di un’età adulta che non vuole vivere annegando negli schemi della società borghese e nei meccanismi di consumo del capitalismo. Quando si arrampica in montagna è la vita che si cerca, è la libertà che si vuole, è il desiderio del cuore che s’infiamma e che brucia.
Dio solo sa quanto in quei momenti abbiamo davvero bisogno di un amico, di uno che non perda di vista il fatto che non c’è un punto dell’esistenza in cui le regole non valgano, in cui la storia non presenti il conto. In questa terra fatta di temerari Prometeo e di impavidi Icaro, di malinconici Ulisse e di sfacciati Ercole, ciò che più ci manca è un dantesco Virgilio, qualcuno che ci possa portare nelle profondità di quel che siamo e di quel che desideriamo senza che queste profondità ci prendano in ostaggio, ci trattengano o ci disperdano per sempre.
Su quella montagna vicino a Zermatt, mentre il cielo era pieno di stelle, noi non sappiamo che cosa sia successo. Non conosciamo la paura degli ultimi istanti, l’onesto sentimento di verità che, col passare dei momenti, faceva intuire che cosa sarebbe accaduto. Di loro, di quegli uomini, non sappiamo niente. Quello che invece sappiamo è che una delle tragedie sempre possibili in questo tempo fatto di passioni inebrianti è quella di un cuore disposto a tutto pur di sentirsi vivo. Un cuore che, in mezzo alla forza dirompente degli eventi, entra in contatto con una crescente consapevolezza, bisognoso solo di una parola di pietà, di una parola di vita che possa fermare quell’ultimo slancio che — visto col senno di poi — sembra più una sfida al destino, un ultimo sgarbo alla morte, piuttosto che un’espressione della nobiltà e della grandezza del proprio animo. Perché è di questo che, oggi come non mai, si rischia di morire: del fascino che ti lascia la sensazione di avercela fatta, di essere sopravvissuto, di aver fregato la notte e di poterlo ancora raccontare. Come è distante quest’uomo pieno di presunzione, eppure pavido, da chi un tempo scalava le montagne o solcava i mari per ritrovare se stesso, per riabbracciare, nel dialogo con quel misterioso Tu fatto di roccia o di salsedine, un bene tanto antico quanto atteso, un bene davvero temuto e rispettato. Non è forse questa la storia di quegli alpinisti — non sta a noi dirlo — ma questa può invece essere la storia di ciascuno di noi.