Il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, è intervenuto domenica in televisione sulle dichiarazioni rese qualche giorno fa dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti sul presunto scarso impegno della Chiesa nella lotta alla mafia. Per la verità nella sua relazione Roberti ha parlato di un “silenzio” che “dura da secoli”, e questa affermazione merita un intervento, perché questa questione, già molto complessa in se stessa, rischia di complicasi ulteriormente, magari nel lodevole tentativo di semplificarla.
Non crediamo che il dottor Franco Roberti abbia bisogno di aver indicata la ricca letteratura che documenta da molti decenni le numerose prese di posizioni pubbliche e ufficiali che la Chiesa italiana, e soprattutto gli episcopati meridionali, hanno assunto per condannare in modo incontrovertibile il fenomeno mafioso e i mafiosi in particolare. Basta un veloce ricorso ad internet.
La circostanza è, invece, opportuna per evidenziare che magistratura e Chiesa cattolica italiana, pur essendo entrambe annoverabili nella categoria di “istituzioni” sono chiamate a conseguire obiettivi diversi, anche se talvolta convergenti.
Il primo e più importante obiettivo per la magistratura e le forze dell’ordine nella lotta alla criminalità mafiosa è innanzitutto assicurare alla giustizia, cioè mettere in galera, i colpevoli di questi reati. All’espiazione della colpa dovrebbe seguire, ma sappiamo bene che non è così, la rieducazione del condannato, per restituirlo alla convivenza civile.
Per la Chiesa il primo obiettivo è la conversione: lo gridò san Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento, lo hanno ripetuto i suoi due successori; lo sanno e lo ripetono i vescovi e i sacerdoti e tutti i fedeli ai quali è accaduto di imbattersi con persone mafiose.
Tentare di trascinare la Chiesa e i suoi pastori sul terreno delle dichiarazioni o degli anatemi, per quanto può essere necessario e certamente lo è stato e lo è, non esaurisce per nulla la responsabilità che Chiesa e presuli hanno per far sì che i mafiosi si convertano.
La problematica della conversione, soprattutto se si tratta di un mafioso, attiene ad un ambito della sfera privata tra i più profondi e meritevoli di assoluta riservatezza. Per questo motivo non può essere giudicata con i criteri che misurano la veridicità di una notizia sulla base della sua diffusione mass-mediatica.
Certo, finora non abbiamo assistito ad una “conversione in diretta” durante una trasmissione televisiva. Farebbe la fortuna del presentatore, ma forse non del convertito. I sacerdoti che si imbattono in tali persone sanno bene quanta pazienza e discrezione sia necessaria per accompagnarli in un percorso di redenzione che richiede un cambiamento di mentalità e una assunzione di responsabilità non indifferenti. Tra l’atro, anche la Chiesa chiede in questi casi di riparare per quanto possibile al male arrecato alle vittime.
Vi sono due campi di azione che si possono tenere presente in questo ragionamento, anche se non possono essere indagati con i criteri della pubblicità.
Il primo riguarda l’impegno quotidiano che la maggioranza dei parroci ha per inoculare germi di comportamento legale a persone che sono cresciute in contesti in cui la mafia, anche quella piccola e apparentemente insignificante di borgata, costituisce l’unico punto di riferimento per la risoluzione dei problemi della convivenza civile.
Parliamo dei famosi atti di deferenza che si sono verificati in alcune processioni fermando il simulacro del santo davanti all’abitazione di un mafioso locale. A fronte di questi casi, amplificati dalla stampa, quanti sono quelli in cui simili comportamenti sono stati prima impediti e poi sradicati dalla coscienza dei devoti parrocchiani, col silenzioso impegno di parroci e fedeli? Molti parroci ne sono testimoni silenziosi e discreti.
Lo stesso potrebbe dirsi del fenomeno delle infiltrazioni mafiose nelle confraternite, che così copiose sono ancora presenti nelle strutture territoriali delle diocesi, soprattutto del meridione. La presenza di qualche mafioso di quartiere tra gli associati desta giustamente allarme sociale. Le diocesi siciliane, in particolare, sono impegnate da tempo nel riportare queste strutture nell’alveo della più sana tradizione religiosa e i risultati cominciano a vedersi. Pronunciamenti e prese di posizione pubbliche delle chiese locali in tal senso non mancano.
Ma la Chiesa si occupa di mafia in quanto peccato e ad essa sta a cuore la conversione del cuore. Ecco perché, in questo caso, come in tanti altri, bisogna innanzitutto partire e riconoscere la diversità di compiti e responsabilità che istituzioni pubbliche e Chiesa hanno nella lotta alla mafia, anche se alcune cose possono essere fatte insieme.
Su questo terreno comune si può e si deve andare avanti, ma senza pretendere che ciascuno svolga il compito che gli è stato assegnato dall’altro.