Siamo talmente abituati al linguaggio paradossale di Gesù che corriamo il rischio di ridurre le sue parole a slogan, a puro esercizio di retorica. Anche i preti possono perdersi in definizioni paradossali che rendono brillante la loro oratoria, ma che poco incidono su scelte di vita davvero ispirate ai valori del Vangelo. Il paradosso, se ben inteso, come sottolinea Paul Ricoeur, dovrebbe disorientare per “riorientare” proprio perché è al cuore dell’annuncio evangelico nel quale i primi diventano gli ultimi, i poveri sono dichiarati beati, chi perde la propria vita per il Vangelo la guadagna.
Anch’io, nei miei primi dieci anni da prete, immerso nella vita parrocchiale, responsabile della pastorale giovanile in oratorio nelle periferie di Milano, ho corso il rischio di perdere il contatto con la realtà lasciandomi impigrire dall’abitudine del fare pastorale, ostaggio di un ministero incapace di quella sana inquietudine che realmente ti fa entrare nel mistero della vita. Paradossi come questo mi lasciavano indifferente, non mi inquietavano per niente e così non mi rendevo conto di perdere gradualmente il centro dell’umano e quel volto di Dio narrato da Gesù di Nazareth per il quale mi ero pur deciso negli anni giovanili.
All’improvviso, la cella di un carcere mi ha riaperto gli occhi. L’incontro con i ragazzi detenuti nel carcere minorile Beccaria di Milano mi ha consegnato uno sguardo nuovo sulla realtà, sul mio ministero sacerdotale, sulla mia umanità e quella delle persone intorno a me. Uno squarcio di luce nella notte delle mie abitudini e delle mie pigrizie ministeriali.
Ricordo bene il primo ragazzo incontrato in cella. “Ciao. Io sono don Claudio, il nuovo cappellano. Tu come ti chiami?”, lo incalzo io, ostentando falsa sicurezza. “Cazzi miei!”, la risposta perentoria e altrettanto chiara di quel giovane. In un istante cadevano tutte le mie sicurezze affidate a un ruolo e nascevo come uomo/prete nuovo. Ringrazierò sempre quel primo ragazzo incontrato in carcere. Mi ha aperto gli occhi e mi ha costretto a ritrovare dentro di me le domande perdute. Chi è questo giovane? Perché mi ha risposto così? Chi sono io? Ho fatto bene a chiamarlo “Cazzi miei” per tutta la settimana? Chi sono gli ultimi? Chi sono i primi? E io chi sono, da che parte sto?
E mentre le mie domande di un tempo evaporavano con sorprendente facilità, i ragazzi del carcere mi imprigionano con loro per andare oltre la mia retorica sacerdotale. Un pomeriggio di Pasqua, due ragazzi mi imprigionano letteralmente. Mi rinchiudono con loro in cella, armati… con una Bibbia in mano e minacciosamente mi interpellano: “Adesso non esci da qui finché non ci spieghi com’è ‘sta storia di questo qui che scappa dalla tomba e le guardie non si accorgono…”. Risate. Poi, sono rimasto inchiodato dalle loro fitte domande. Due ore e mezza per rendere ragione dell’evento più decisivo della nostra storia.
Non so quante parole ho balbettato e ripetuto a memoria. So bene, invece, lo smarrimento di quella sera, una volta liberato da quella cella. I ragazzi del carcere ti inchiodano e ti incatenano alle domande decisive: non puoi fuggire, non puoi ripetere formule già collaudate. Esigono solo risposte maturate dall’esperienza; non importa se ancora incomplete. Basta che siano vere. È così che mi sono messo in ascolto per imparare da questi ragazzi la bellezza della fede.
E mi sono ritrovato ultimo tra gli ultimi, spogliato di tutte le certezze consolidate fin dagli anni della formazione seminaristica. Mi sono inabissato nelle storie di questi giovani per ritrovare le domande perdute, per dare un senso al loro e mio dolore, per imparare la vera compassione e quella giustizia di Dio che si chiama Misericordia.
Ci ho messo davvero poco tempo al Beccaria per capire che, sebbene prete, non ero il giusto in mezzo ai peccatori e che c’è un’umanità comune che non conosce differenze di età, storia e provenienza sociale. Siamo tutti segnati dalla mancanza e dalla paura della perdita. Dietro i volti spavaldi e bulli dei ragazzi del carcere ho imparato a leggere la mia stessa paura di scomparire, di non esistere e la vergogna insopportabile di non essere riconosciuto per quello che sono.
Così ho imparato a far mie le parole di Gregorio Magno: “Molte cose che nelle Sacre Scritture da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli. Mi sono reso conto che l’intelligenza mi era concessa per merito loro”. “Tu sei un bene per me” non è solo il tema del Meeting di quest’anno. È la scoperta sempre inedita di come l’altro diverso da te, anche se ha il volto giovane di chi ha commesso reati, rappresenti unkairos, un’occasione irripetibile di cambiamento.
Ho riscoperto con meraviglia il mio essere prete come servizio e non come potere, perché la fede non si comunica solo con i valori non negoziabili o con la legge dei codici, non si impone come egemonia sulle coscienze. Educare i ragazzi del carcere è liberare le loro coscienze e trasmettere la certezza che c’è sempre un bene originario che precede il male. L’altro, il diverso da me, non è necessariamente l’inferno, una minaccia da cui difendersi. È mio fratello in umanità. Cammina con me.
Non ho bisogno del cattivo, del mostro rinchiuso in cella, per sentirmi giusto e affermare la mia bontà. Nella nostra società così pervasa dall’ansia di un superficiale e affrettato giustizialismo, sembra quasi che il puro abbia necessità che esista l’impuro e che da qualche parte ci sia un nemico da abbattere a tutti i costi. Anche nella cultura cristiana non è del tutto scomparsa l’idea di un Dio sanzionatore. A contatto con gli adolescenti del carcere sto imparando che la legge può imporre la cura, ma raramente la legge è la cura.
In questi anni mi sono convinto che non esistono ragazzi cattivi e che anche una vita sbagliata è storia di salvezza. Un reato, soprattutto in età giovanile, è un grido di aiuto, è invocazione di compimento, è dare voce al cuore inquieto. Tocca a noi figli adulti ricordarci di dover diventare padri, farci ultimi perché gli ultimi ci introducano nella beatitudine del Regno.