I troppi “non ricordo” di don Giuseppe Sotgiu avrebbero spinto il gip Giorgetti a indagare l’uomo per falsa testimonianza nell’ambito dell’omicidio su Lidia Macchi. E’ questa l’ultima notizia che trapela dagli ambiti investigativi, come riporta oggi La Provincia di Varese online. A spingere il gip verso questa decisione sarebbe stata l’eccessiva reticenza del sacerdote in riferimento ai fatti relativi ad oltre 29 anni fa e pertinenti al delitto della giovane Lidia Macchi. Stando all’accusa, don Sotgiu avrebbe cambiato due volte la sua versione al fine di fornire un alibi all’amico Stefano Binda. I contenuti del suo interrogatorio avvenuto nei giorni scorsi al cospetto del gip Giorgetti, del sostituto procuratore Manfredda e dei legali dello stesso Binda non sarebbero stati resi noti ma sarebbero comunque emersi i suoi molteplici “non ricordo” replicati in risposta alle tante domande sui fatti di 29 anni fa. Sul cambio di versione avrebbe giustificato l’evento come l’esigenza di apportare delle modifiche dopo essersi reso conto di essersi confuso nella prima versione. Con Binda, a sua detta, non aveva dunque accordato alcun alibi ma il cambio di versione sarebbe servito solo ed unicamente a chiarire la sua posizione.
Sono attese novità nel caso di Lidia Macchi, dopo che gli interrogatori ai vari testimoni informati sui fatti hanno portato a qualche dubbio sul prete amico di Stefano Binda (l’unico indagato e ora in carcere per l’omicidio della giovane ragazza), Don Giuseppe Sotgiu, che potrebbe essere indagato per falsa testimonianza, quanto ha chiesto il gip alla Procura (fonte Corriere della Sera). Intanto si è aperta la terza giornata di ricerche al Parco Mantegazza: i militari di Cremona hanno continuato a setacciare il terreno di Masnago, con ogni centimetro che viene analizzato per trovare la presunta arma del delitto che si sospetta sia stata lanciata da Stefano 29 anni fa. Le ricerche andranno avanti fino a fine febbraio e al termine delle quali si sapranno le possibili novità o meno sul caso orribile di omicidio di Lidia Macchi.
E’ durato 14 ore l’interrogatorio di don Giuseppe Sotgiu per il delitto di Lidia Macchi. Così riferisce il Corriere, riportando che la maggior parte delle risposte che ha dato il prete, durante l’incidente probatorio di lunedì scorso, è racchiusa in una serie di “non ricordo”. Amico dell’indagato per il delitto, Stefano Binda, il prete era a sua volta una figura molto vicina a Lidia Macchi, la studentessa uccisa con 29 coltellate nel 1987. La strategia difensiva di don Giuseppe Sotgiu è apparsa al sostituto procuratore generale Carmen Manfredda ed al gip Anna Giorgetti, come una reticenza, una volontà di non dire qualcosa di cui è a conoscenza. La madre di Lidia Macchi, presente in aula, è scoppiata a piangere dal nervoso e ha sottolineato in questo modo di essere ancora una volta scettica di fronte al comportamento del prete. Al termine dell’udienza, il gip Anna Giorgetti ha ordinato che gli atti vengano trasmessi alla Procura per il reato di falsa testimonianza. La contestazione verrà succesivamente vagliata dal pm di Varese che verrà assegnato al caso. Don Sotgiu ha ripetuto di non ricordare nulla di quanto è accaduto nei primi mesi del 1987, quando cioé Lidia Macchi è stata uccisa a Cittiglio, in provincia di Varese. Non ricorda nemmeno quanto aveva riportato la madre della vittima, Paola Bettoni, agli inquirenti già anni fa, e cioé che una sera si era presentato a casa Macchi per cenare in compagnia del Binda. All’epoca dei fatti, don Sotgiu era poco più che vent’enne e secondo la procura generale di Milano avrebbe fornito un alibi all’amico Binda per salvarlo dalle indagini sull’omicidio di Lidia Macchi. Già nell’87 il prete venne chiamato più volte in Questura e venne sottoposto anche all’esame del DNA. Tuttavia non venne mai indagato in modo formale. Ora la risposta spetta al PM di Varese per scoprire se la sua testimonianza potrà essere convalidata o meno.
Continuano le ricerche dell’arma del delitto di Lidia Macchi. Da ieri il parco Mantegazza di Varese è setacciato: si cerca il coltello con cui nel gennaio 1987 è stata uccisa la studentessa. Secondo gli investigatori Stefano Binda, l’uomo arrestato lo scorso 15 gennaio e accusato di aver violentato e ucciso la ragazza 29 anni fa, potrebbe aver nascosto l’arma del delitto proprio in quel giardino pubblico. Dopo tanti anni il caso è stato riaperto dopo che la trasmissione Quarto Grado di Rete 4 ha mostrato una lettera ricevuta dai familiari di Lidia Macchi pochi giorni dopo il funerale della giovane. Una telespettatrice ha riconosciuto la calligrafia collegandola a quella di un ex compagno di classe, Stefano Binda, che all’epoca dei fatti le aveva inviato qualche cartolina. Così il caso è stato riaperto e l’uomo è accusato dell’omicidio. L’arma del delitto però non è ancora stata trovata
Dopo la possibile svolta con gli scavi nel parco in provincia di Varese, il caso di Lidia Macchi attende le novità che nei prossimi giorni potrebbero venire dall’eventuale ritrovamento dell’arma. Intanto continuano le audizioni in aula dei testimoni chiave di questo lunghissimo caso di omicidio. Presente anche la madre della studentessa uccisa nel gennaio 1987, Paola Bettoni, che afferma alla stampa un laconico e comprensibile “spero che emergerà la verità” in una pausa dell’udienza davanti al gip di Varese. Un inizio di processo che si tiene a porte chiuse, presente in aula anche Stefano Binda, al momento in carcere come unico accusato dell’omicidio di Lidia e che dopo la testimonianza di Patrizia Bianchi sulla calligrafia della lettera inviata 29 anni fa alla famiglia Macchi avrebbe anche indicato un sospetto rilascio di un sacchetto bianco nel luogo del delitto dell’uomo ex compagno di scuola della ragazza uccisa. Svolte, novità ed eventuali conclusioni si spera verranno svelati nei prossimi giorni.
Forse siamo davvero vicini alla svolta decisiva per il delitto di Lidia Macchi, la giovane ragazza trucidata 29 anni fa in un parco in provincia di Varese: per questo omicidio è in carcere da due mesi un suo ex compagno di scuola dell’epoca, Stefano Binda, che sarebbe l’autore di quella famosa lettera “In morte di un’amica” recapitata alla famiglia di Lidia Macchi il giorno dei funerali con dettagli inseriti molto probabilmente a conoscenza solo del killer. Ora però l’ulteriore svolta, anche perché Binda in carcere continua a ritenersi innocente, potrebbe arrivare con il ritrovamento dell’arma usata contro Lidia Macchi: la si cerca da 29 anni, probabilmente un coltello, ma ora gli inquirenti sembrano aver in mano una testimonianza chiave. La stessa donna che ha riconosciuto la grafia di Binda, Patrizia Bianchi, sembra – riporta il sito online del Corriere della Sera – che abbia rivelato nell’interrogatorio di tre ore degli scorsi giorni dal sostituto procuratore Carmen Manfredda particolari ulteriori. Avrebbe raccontato che un giorno ha accompagnato in macchina proprio Stefano Binda nel luogo del delitto, il ragazzo scese dall’auto e gettò un sacchetto bianco dal contenuto sconosciuto: secondo gli inquirenti, se il racconto fosse vero, potrebbe trattarsi dell’arma del delitto usata per uccidere Lidia Macchi e per questo motivo ieri hanno posto sotto sequestro il parco Mantegazza di Castello di Masnago (Va), iniziando gli scavi per trovare l’eventuale coltello. I nodi da chiarire rimangono tantissimi: se fosse vera l’indiscrezione sulle parole di Patrizia, perché per tutto questo tempo non sono state riferite alla Procura? Intanto per 15 giorni l’area è tutta a disposizione della magistratura che continuerà gli scavi, ma di certo andrà chiarito il ruolo sia di Binda e dei suoi spostamenti in quei giorni terribili e poi anche la posizione di Patrizia Bianchi.