L’udienza di ieri per l’omicidio di Lidia Macchi e che vede imputato Stefano Binda, ha assunto un’enorme importanza dal momento che ad intervenire in aula è stata la super testimone Patrizia Bianchi. E’ le la donna-chiave dell’intero processo contro Binda, che identificò nell’imputato e presunto assassino la sua grafia in una lettera anonima dal titolo “In morte di un’amica”, ricevuta dalla famiglia di Lidia Macchi nel giorno del funerale della figlia, uccisa nel gennaio 1987. La testimone, come rivela il quotidiano Il Giorno nella sua edizione online, ha aperto l’udienza di ieri ripercorrendo il suo rapporto con Stefano Binda. Una conoscenza la loro, iniziata sin dai tempi del liceo classico durante i quali la Bianchi frequentava la stessa classe dell’altro grande amico dell’imputato, Giuseppe Sotgiu, poi divenuto sacerdote. Da una conoscenza ne nacque una vera amicizia, nel corso della quale i due si incontravano spesso condividendo momenti felici tra gite e vacanze, anche insieme a Sotgiu. La super teste ha ribadito l’elevato spessore culturale del presunto assassino della studentessa varesina, il quale era un grande amante della letteratura e di Pavese. Il loro legame, tuttavia, era destinato ad essere solo amicale. A far cadere le possibili aspettative dell’allora ragazzina fu proprio una frase che Binda pronunciò di ritorno da Milano mentre si trovavano insieme a Sotgiu. In quell’occasione lui le disse: “Guarda, io sono un misogino”, lasciando di stucco Patrizia.
Dopo aver raccontato del tipo di relazione che la legava a Stefano Binda, la testimone ha ricordato in aula come apprese la notizia della morte di Lidia Macchi. A renderla partecipe dell’immane tragedia, la mattina del 7 gennaio di 30 anni fa, fu il fidanzato di allora. Subito dopo Patrizia chiamò Binda per metterlo al corrente. Una telefonata concitata durante la quale, pur non avendo alcuna informazione al riguardo, Patrizia disse all’amico che l’arma del delitto di Lidia non era ancora stata trovata. Un’affermazione che, come spiegato ieri in aula dalla teste, mandò nel panico l’imputato al punto da sommergerla di domande proprio sull’arma utilizzando un tono duro e incalzante mai usato prima nei suoi confronti e che la colpì molto. Ma perché Patrizia Bianchi avrebbe deciso solo dopo quasi un trentennio di riferire alle autorità questi dubbi gravissimi? E’ quanto chiesto ieri dal magistrato alla teste che ha quindi replicato: “Non avevo altri fatti collegati. Avevo messo tutto nel cassetto”.
Nel corso del processo sono stati resi noti anche gli altri dubbi della testimone chiave, ovvero il famoso sacchetto con all’interno qualcosa di pesante che Binda portava con sé mentre si trovava in auto con la Bianchi e la confidenza dell’uomo che le diceva di avere intenzione di mandare una lettera alla famiglia di Lidia Macchi. In merito al sacchetto, la testimone ha raccontato che Stefano si fece indicare la zona dove abitavano i genitori di Lidia ma al suo ritorno il sacchetto, all’interno del quale era contenuto qualcosa a suo dire pesante, non c’era più. In aula, Patrizia ha anche evidenziato i dubbi avuti durante il funerale di Lidia, quando ebbe il sentore che il prete potesse conoscere qualcosa sull’assassino della studentessa. Infine, davanti alla Corte d’Assise di Varese Patrizia Bianchi ha ricordato la visita che nel 2008 fece a don Sotgiu e che sotto certi aspetti la spiazzò. Parlando infatti del loro vecchio amico comune, Stefano Binda, quest’ultimo fu descritto dal parroco come una persona diversa da quella che aveva conosciuto in passato.