È propria del giornalismo “nostrano” l’esigenza di trovare sempre nuove ed eclatanti rivelazioni, meglio se provenienti da testimoni in vista e autorevoli, rispetto ad eventi che hanno cambiato la storia del Bel Paese. A questa persistente tendenza la stampa italica non si sottrae nemmeno nell’occasione di casi giudiziari discussi e ancora insoluti; e tra questi l’omicidio di Aldo Moro risalta senza dubbio all’interno del quadro degli episodi più controversi accaduti dal secondo dopoguerra in avanti. Basterebbe riandare alla oramai ricca bibliografia che si è concentrata sulla strage di via Fani e le successive fasi di prigionia e morte dello statista democristiano, una letteratura fiorita innanzitutto sullo stimolo dell’esigenza di comprendere il disegno finale dei rapitori, e con ciò soprattutto definire il quadro dei rapporti tra governo italiano e Brigate rosse all’apice della strategia seguita da queste ultime nel tentare di “sfondare” la tenuta istituzionale dello Stato.
Come e più, ad esempio, del caso Ustica, nel caso Moro l’imponente flusso mediatico è progressivamente trasmigrato in numerose analisi storiografiche, peraltro di vario e spesso ancora incerto spessore interpretativo, dovendosi ultimamente sospendere il giudizio di fronte a un panorama testimoniale e documentale ancor oggi in evoluzione, e per molti aspetti persistentemente in ombra. Di contro, un tentativo di superare i limiti, concettuali e interpretativi, di questi lavori (che si potrebbero tutti ascrivere al genere letterario della “storia criminale” – la definizione è di Migone) è il volume di Agostino Giovagnoli (Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino, 2005), dove a prevalere è lo sforzo di restituire la ricostruzione di quei drammatici 54 giorni all’autorevolezza delle fonti primarie, al dibattito aperto nei principali partiti sulla linea da tenere, così come appare nei verbali, alla documentazione desunta dalle deposizioni presso la prima Commissione parlamentare di inchiesta.
Come ha notato Paolo Pombeni in una recensione al saggio di Giovagnoli, persiste comunque tuttora un’estrema difficoltà nell’analizzare i comportamenti di allora per quella che lo storico bolognese definisce la «faccia oscura della luna», ovvero l’orientamento degli apparati dello Stato, vista la «totale scarsità di fonti cui attingere» al riguardo. E l’insediamento della nuova “Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro”, è la prova provata delle necessità innanzitutto istituzionale di individuare nuove fonti capaci di supportare una comprensione finalmente più chiara ed equilibrata di questo passaggio così delicato, pure travalicante la fondamentale biografia personale dello statista pugliese.
Ma si sa… i giornalisti sono sempre in agguato, così, quando si viene a conoscere che Papa Francesco in persona – coerentemente alla nuova “glasnost” vaticana da lui inaugurata – ha autorizzato la deposizione di mons. Antonio Mennini, attuale nunzio apostolico nel Regno Unito, alla Commissione, ci si ostina a vociare sui titoli di testa che questa decisione, almeno in qualche modo, stia “riaprendo” il caso Moro.
E il malcapitato autorevole teste deve affrettarsi a dichiarare – urbi et orbi – che no, lui (allora giovane parroco della chiesa di Santa Lucia, stimato dalla famiglia Moro) non è mai stato a trovare, e si badi bene, confessare (!), il presidente della Dc durante i giorni della sua prigionia; e la paradossalità di questa ipotesi si materializza in questa sua dichiarazione piuttosto sferzante: «…se avessi avuto un’opportunità del genere credete che sarei stato così imbelle, che sarei andato lì dove tenevano prigioniero Moro senza tentare di fare niente? Sicuramente mi sarei offerto di prendere il suo posto, anche se non contavo nulla…».
Dov’è dunque la “novità” della nuova deposizione di mons. Mennini? Nuova perché ulteriore, come si è dovuto affrettare a dichiarare pure mons. Lombardi, portavoce ufficiale vaticano: si sappia che l’attuale nunzio in passato è già stato ascoltato dalla Commissione Moro nel 1980, dalla magistratura italiana tra il 1979 e il 1993 (mentre nel 1995 si era rifiutato di testimoniare alla Commissione stragi) per sette o addirittura otto volte.
E se allora questo è lo spessore del dibattito pubblico sull’epilogo di Aldo Moro, di un modo di essere del “partito italiano” (sempre Giovagnoli), e ultimamente della stagione del terrorismo nel nostro Paese, temo che dovremo confidare in altre sedi e occasioni per poterne finalmente capire qualcosa di più.