Caro direttore,
che cos’è questa scia di violenza e morte che sta insanguinando la nostra estate? Da dove proviene tutta la rabbia e la follia che travolge decine di ragazzi in Italia e nel mondo durante un periodo che dovrebbe essere bello e spensierato? Perché si abbatte sul nostro tempo quella che da sempre è ritenuta la più orribile delle sciagure, ossia quella delle madri che piangono i loro figli?
La cronaca di queste settimane, il bollettino di morte che ogni giorno dilaga sui mezzi di informazione, dà un senso nuovo alla parola terrorismo. Terrorismo è anzitutto la riduzione della persona a simbolo, il guardare l’altro — il marito, la moglie, gli amici, i figli — non per quello che sono, bensì per quello che rappresentano. I terroristi “classici” ci uccidono perché siamo cristiani e occidentali, ma tutti gli uomini possono uccidere per quello che la nostra vita simboleggia. Il pianto di un bambino può diventare l’emblema dell’esasperazione, l’atteggiamento di nostro marito può incarnare giorno dopo giorno la nostra sensazione di aver fallito, le risposte della nostra fidanzata possono manifestare il segno inequivocabile di un’inadeguatezza che ci sentiamo crescere dentro, la lite con un amico o con uno sconosciuto può trasformarsi nello scontro finale con un nemico che perseguita i nostri sogni. L’idea prevale sulla realtà e la mente — con i suoi furori e i suoi sentimenti — annebbia la nostra consapevolezza. Inizia così un’alterazione della percezione della vita e ogni parola, commento, atto, si candida ad essere il punto d’innesco di un bisogno di giustizia e di verità che sentiamo letteralmente soffocato dalle forme e dalle consuetudini del nostro presente.
Viene il tempo dei conflitti e delle partigianerie, delle lotte e dei deliri di onnipotenza. Ci sentiamo così tanto creditori verso l’esistenza che arriviamo a pensare che tutto possa essere permesso e giustificato, che la scomparsa o la punizione dell’altro possa coincidere con la fine di ogni nostro problema. È questo che è accaduto a Wuppertal, a Turku, a Barcellona, Roma, Milano, Jesolo o a Lloret de Mar.
Ma quand’è che il nostro cuore ha cominciato a piangere? Quand’è che la nostra testa ha cominciato a “sragionare”? Il terrorismo, che sia religioso, politico, da tastiera, civile o familiare, inizia sempre dentro la persona nell’esatto momento in cui sentiamo tradita la promessa della vita. “Gli uomini muoiono — stanno morendo, diremmo noi — e non sono felici”, osservava Camus.
L’aver accantonato completamente il dramma di un’esistenza che sembra non rispondere alle attese che ciascuno porta nel cuore ha aperto lo spazio al nulla, ha alimentato con la freddezza di una solitudine camuffata i mostri che ci portiamo dentro e che possono essere semplicemente riassunti in un sussurro che continuamente ci dice: “Tu non vali niente, tu non sei degno di essere amato, tu non sarai mai felice”. Abbiamo pensato al Pil, alle visioni geopolitiche, ai consumi, alle tendenze, ma ci siamo dimenticati del cuore. Esso sanguina e, benché ci trovi distratti o indifferenti, prima o poi ci presenta il conto. È quindi il tempo dell’ansia, della rabbia, della paura.
O forse, al contrario, questo può essere il tempo dell’attesa, il tempo in cui lo strazio per questi nostri figli e amici, che muoiono massacrati come bestie o imbottiti dallo sballo, può tramutarsi in un “Basta!”, diventare preghiera, bisogno che accada di nuovo Qualcosa. Insomma: o proviamo a cavarcela da noi, arraffando dalla vita quanto più possibile e facendoci giustizia con le nostre mani, o torniamo a incontrarci, a stare insieme, a passare le serate e a guardar le stelle, per mendicare, con chi ci è davvero amico, occhi pronti e cuore attento a che il Cielo ci offra un segno che possa portare speranza e consolazione a questa, apparentemente infinita, “strage degli Innocenti”, strage silenziosa delle attese del cuore. È dunque il tempo della libertà, il tempo in cui ricominciare ad essere popolo.