Fascista, poi partigiano, per il resto della vita di sinistra, anche nella fase in cui fu a libro di paga di Berlusconi, realizzando per le sue televisioni svariati programmi. Dopo questa esperienza, tuttavia, ne divenne tra i più strenui detrattori; fu, inoltre, tra i fondatori di Repubblica, mostrò – inizialmente – ammirazione per Craxi e, in seguito, profonda disistima, la stessa parabola osservata per la Lega Nord: questi, in estrema sintesi, alcuni tra i connotati che maggiormente hanno scandito la personalità e la vita di Giorgio Bocca. Michele Brambilla ci parla del giornalista e scrittore scomparso, a 91 anni, il giorno di Natale.
Che ricordo ha di Giorgio Bocca?
Quando, per scrivere L’Eskimo in redazione, analizzai i giornali italiani per capire le posizioni dei giornalisti di sinistra sul terrorismo degli anni 70, notai che Giorgio Bocca era tra coloro che, all’inizio, non avevano creduto alla Brigate Rosse. Sul Giorno scrisse, infatti, un articolo intitolato “L’eterna favola delle Brigate Rosse”. Era tra quelli convinti di una tesi, all’epoca, molto diffusa; ovvero, che le Br fossero costituite da poliziotti, agenti dei servizi e fascisti mascherati.
E poi?
A differenza della maggior parte dei colleghi convinti di tale teoria, riconobbe l’errore e fece ammenda. Scrisse, nelle seconda metà degli anni ’70, una serie di articoli in cui ammise che, sulle Br, non si era capito nulla. Il che gli fece molto onore.
Questo cosa dimostra?
La sua profonda libertà interiore. Pur essendo un giornalista schierato, non era servo di nessuno, non doveva difendere alcuno a priori. Era un giornalista che raccontava quello che vedeva, secondo la sua interpretazione, pronto a riconoscere, laddove se ne fosse accorto, l’errore.
Fu così anche per l’omicidio Calabresi.
Esatto, capì che firmare contro Calabresi fu un grave errore. Del resto, va anche detto che, all’epoca, spesso, le firme venivano raccolte in maniera approssimativa e affrettata.
Lei lo ha mai conosciuto?
L’ho incontrato alcune volte. Una di queste, in particolare, gli feci un’intervista uscita su Gente che cerca (ed. Ancora), in cui parlava del suo rapporto con la fede.
Cosa ne emerse?
Pur non essendo mai diventato credente, riconosceva due cose: anzitutto, che la Chiesa era un’istituzione più credibile di tutte quelle in cui si era imbattuto sino ad allora. Se era resistita per 2000 anni, doveva per forza essere fondata su qualcosa di serio. Inoltre, da uomo di sinistra che aveva combattuto tante battaglie per i poveri e gli emarginati, riconobbe che la Chiesa, su questi temi, era quella che aveva dato di più. Si rendeva conto, infine, del fatto che il cristianesimo conferisce un senso all’esistenza che, altrimenti, sfuggirebbe.
Che fosse di sinistra è noto; crede, tuttavia, che fosse inquadrabile in qualche partito?
No, era un battitore libero. Di certo, proveniva dal mondo della sinistra, ed era stato partigiano. Tuttavia, non fu mai organico ad alcuna formazione.
Lei come lo definirebbe?
Era uno di quei giornalisti che interpretò il suo mestiere non solo come strumento per fornire delle informazioni, ma anche per migliorare la società. Lo faceva, quindi, con passione e impegno. Era uno di quei giornalisti, per l’appunto, impegnati e viveva la sua professione con grande passione civile.
Cosa ne pensa del fatto che lavorò per Berlusconi?
Che sarebbe ingeneroso nei suoi confronti ricordarlo per questo; del resto, Berlusconi non era ancora entrato in politica. Non appena si rese conto della sua differenza antropologica con Berlusconi e con il berlusconismo, decise di lasciarlo.