— “Vogliamo che le cose siano chiamate con il loro nome” aveva detto il presidente armeno, Serzh Sargsyan, accogliendo il Papa nella Sala Ricevimenti dove erano schierati autorità civili, notabili della diaspora, intellighenzia e corpo diplomatico al completo. E Papa Francesco non se lo è fatto ripetere due volte. Così dopo settimane di ipotesi, supposizioni, convinte negazioni e certezze giornalistiche la parola, anzi la parolaccia diplomaticamente impronunciabile, l’ha sputata fuori, non senza un attimo di teatrale sospensione. Nessuna poetica parafrasi, nessuna metafora, giusto una piccola concessione al lirismo dell’armeno e accanto al Metz Yeghérn, il “grande male” che all’inizio del ‘900 ha inghiottito un intero popolo, Francesco ha schiaffato il termine “genocidio”.
Era la definizione che tutti attendevano, la conferma che tutto ciò che gli armeni hanno patito, sofferto e subito non è stata un’allucinazione collettiva. Ma un fatto, storico, accertato, innegabile. Il massacro programmato di un milione e seicentomila essere umani, perpetrato da un impero, quello ottomano, pronto a sbriciolarsi e per questo ferocemente sospettoso, determinato ad individuare un nemico interno su cui riversare odio e violenza come collante e comode menzogne come fertilizzanti per un nuovo sogno di gloria.
E’ stato il primo genocidio del XX secolo, la prima epurazione etnica di un lungo elenco di “immani catastrofi” che hanno segnato il secolo scorso, corredate dagli aberranti alibi della purificazione della razza e dalla violenza ideologicamente assunta come inevitabile strumento di sopravvivenza. Senza verità non c’è riconciliazione, aveva detto il presidente. E Francesco non ama nascondersi dietro tecnicismi diplomatici. Così, infischiandosene del governo di Ankara che poco più di un anno fa aveva ritirato il suo ambasciatore presso la Santa Sede all’indomani di una liturgia, nella Basilica Vaticana, in cui era risuonata la parola “genocidio”, ha ridetto ciò che in troppi vogliono negare: la strage di centinaia di migliaia di armeni è stata pianificata, voluta, perpetrata per uno “sfrenato desiderio di dominio”.
Tutti sanno di chi fu la responsabilità di una tragedia dalle proporzioni colossali, inspiegabilmente ridotta a conflitto regionale da parti variamente interessate. Ankara teme i risvolti penali, in sede internazionale, di un’ammissione di responsabilità. Altri hanno spesso rifiutato il riconoscimento dovuto ad un evento certificato nella storia per paura di perdere una terribile “unicità”. Non è un mistero infatti che molti nel mondo ebraico hanno minimizzato gli eventi, per non dover ammettere che l’orrore e il delirio si ripetono con drammatica schematicità. Così il primo olocausto del ‘900 è stato misconociuto, messo in dubbio, negato persino. E gli armeni hanno conosciuto anche l’umiliazione della cancellazione, l’offuscamento della sofferenza subita, l’irrilevanza del proprio dolore.
E’ questo che il Papa ha voluto spazzare via con l’ovvio riconoscimento de “il Grande Male”. Quell’apocalisse che ha marchiato la vita di ogni armeno è per il Papa un fatto. Da cui partire per fare memoria e guardare avanti. Questa mattina sarà al memoriale del genocidio, di cui solo un anno fa si ricordava l’incipit. Sulla collina delle rondini, il luogo dal nome impossibile con l’infinita processione di consonanti e vocali (Tzitzernakaberd) pregherà per le vittime di allora: gli uomini giustiziati non appena fuori dalle proprie case, le donne stuprate dai gendarmi dell’esercito ottomano e dalle bande curde, durante la lunga marcia verso i deserti della Siria. I bambini inghiottiti dalla fame e dalla sete, scarnificati e abbandonati in mucchi lungo la strada da madri impotenti. Così raccontano i testimoni oculari, i missionari e i delegati apostolici che inviavano accorate missive in Vaticano, l’unica tra le potenze europee abbastanza coraggiosa da inviare suppliche al Sultano e chiedere ragione di tanto orrore: Benedetto XV scrisse e riscrisse senza ottenere nulla se non irrisorie risposte. Tutto è raccolto negli archivi segreti vaticani, catalogato in 7 volumi da un gesuita belga, Padre Georges Henry Ruyssen, sotto il titolo di “Questione armena”.
E ieri un altro pontefice ha mostrato di sapere, e di avere il coraggio. Quando al misurato e attentissimo discorso preparato dalla Segreteria di Stato ha aggiunto la parola che ormai nessuno pensava potesse pronunciare, c’è stato un boato nella sala stampa che raccoglie oltre 600 giornalisti di testate internazionali. Dopo giorni di analisi e articolate spiegazioni, di imbarazzi vaticani e difese d’ufficio, il Papa ha compiuto un atto da uomo libero. Ha chiamato le cose con il proprio nome. E ha restituito all’Armenia l’orgoglio del suo dolore.