Verosimilmente, la sentenza della Corte di Cassazione n. 5924/2011, di cui ha riferito anche ilsussidiario.net nei giorni scorsi, non dirà l’ultima parola in ordine alle tematiche relative all’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici e in particolare nelle aule giudiziarie.
Ciò, anzitutto, in quanto si tratta della decisione su un caso per alcuni versi alquanto peculiare, con la conseguenza che non tutti i principi affermati in tale sentenza possono essere considerati di portata generale.
La vicenda sottoposta all’esame della Corte riguardava un magistrato che si era rifiutato di tenere udienza a causa della presenza del crocifisso nelle aule del Tribunale dove prestava servizio e che aveva mantenuto tale posizione anche a seguito della messa a sua disposizione di un’aula priva di simboli religiosi. Il magistrato aveva giustificato la persistenza del suo rifiuto in base alla considerazione che la presenza del crocifisso in altre aule giudiziarie avrebbe comunque leso i diritti di libertà religiosa degli utenti di tali aule.
Sul punto la Corte di Cassazione ha rilevato che non spetta al singolo individuo pretendere di tutelare la laicità dello Stato o diritti di libertà religiosa di altri soggetti e che pertanto il rifiuto della prestazione lavorativa da parte del magistrato in questione era certamente ingiustificato. Né tale rifiuto, contrariamente a quanto sostenuto dal magistrato, poteva giustificarsi per il fatto che a quest’ultimo era stata negata l’autorizzazione a esporre nelle aule giudiziarie la menorah, simbolo della religione ebraica.
Sul punto la Corte di Cassazione ha infatti rilevato che, allo stato, non esistono disposizioni legislative che consentano l’esposizione di simboli religiosi diversi dal crocifisso nei luoghi pubblici che si trovano sul nostro territorio nazionale. Secondo la Corte di Cassazione, su un piano teorico il legislatore potrebbe decidere sia di vietare tout court l’esposizione di simboli religiosi in luoghi pubblici, sia di consentire a ogni soggetto di vedere rappresentati in questi luoghi i simboli della propria religione.
A detta della Corte, quest’ultima soluzione, tuttavia, potrebbe risultare problematica sotto il profilo della praticabilità concreta, della tutela dei diritti dei non credenti e dei possibili conflitti tra una pluralità di identità religiose tra loro incompatibili.Certamente, potranno influire sulle possibili scelte del legislatore nazionale su tale argomento altre pronunce giudiziariedi giudici nazionali ed europei, prima fra tutte la decisione della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso Lautsi, prevista per venerdì 18 marzo.
Tale decisione riguarda il ricorso proposto dal Governo italiano, con il sostegno di Armenia,Bulgaria, Cipro, Grecia, Lituania, Malta, Principato di Monaco, Romania, Federazione Russa e San Marino, contro la pronuncia di prima istanza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che aveva condannato l’Italia per l’esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche.
In quella pronuncia, la Corte Europea aveva ritenuto che l’esposizione di un simbolo religioso in un luogo pubblico, e in particolare nelle aule scolastiche, limiterebbe il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni e il diritto degli studenti di credere o di non credere. Ora si tratta di vedere se la Grande Chambre confermerà questa impostazione, secondo la quale, in nome della pretesa “neutralità” dello Stato, si pretende di dettare regole valide per tutti gli Stati europei, azzerando così la storia e le tradizioni di ciascun Paese.
È appena il caso di ricordare che una delle più importanti declinazioni del principio di sussidiarietà, cui anche le istituzioni europee devono attenersi, consiste nel valorizzare le identità esistenti nei singoli Stati e non certo di mortificarle. Sembra invece che una certa cultura, sempre più diffusa in Europa e bene espressa dalla sentenza della Corte Europea sopra citata e da altre pronunce giudiziarie, tema le identità e si adoperi in ogni modo per “normalizzare” il nostro Continente.