Considerata la traumatica attualità degli attentanti terroristici sul suolo europeo, ultimo non per importanza quello del 22 marzo 2017 a Londra, la disquisizione che affligge l’antiterrorismo è ora più che mai incentrata sul concetto meno conosciuto di resilienza civile.
Gli Stati a rischio terrorismo studiano con crescente attenzione la possibilità di aumentare la resistenza della popolazione agli attentati costruendo in essi, attraverso un adeguato percorso di crescita sociale e psicologica, il concetto di “resilienza civile” che porta a limitare l’impatto negativo che l’evento ha sulla popolazione sviluppando un meccanismo di risposta al trauma più efficace e fruttuoso.
In base alle nuove dinamiche tattiche schierate dallo Stato Islamico, che vedono un sempre maggior coinvolgimento di cittadini comuni e di luoghi ad essi familiari, i servizi segreti e gli organi di Polizia, intendono orientare i nuovi assetti antiterrorismo direttamente alla popolazione civile ed alla loro capacità di rimane vigili e reattivi anche in caso di grave attacco.
La resilienza è la capacità di un singolo individuo di affrontare e superare un evento traumatico oppure un periodo difficile, il concetto di resilienza civile invece fa riferimento a come una comunità possa gestire un evento catastrofico senza ripercussioni importanti e permanenti.
Sfortunatamente il concetto di resilienza civile è spesso frainteso e confuso con quello di ‘cittadinanza attiva’, ovvero di normali cittadini che prendono parte alla salvaguardia del territorio nazionale con volontariato nella Protezione Civile oppure che si adoperano con ronde o controlli istituzionalizzati al fianco degli organismi preposti come Polizie e Carabinieri.
La resilienza civile riguarda tutta la popolazione, sia essa legata o meno alle questioni di sicurezza, bambini compresi che diventano il vero cardine della resistenza in caso di terrorismo.
In aggiunta al terrorismo internazionale, infatti, fenomeni come quelli dell'”home-grown terrorism” e dei “lonely wolves” (lupi solitari) ed ora dei così detti “cani sciolti” ovvero elementi terroristici scollegati dalla cellula e auto radicalizzati, consentono di attaccare il Paese o i Paesi designati come bersaglio su più dimensioni simultaneamente e in modo sempre meno prevedibile.
In aggiunta alle consuete attività di contrasto e di reazione rapida al terrorismo, che si fanno sempre più pressanti soprattutto sul fronte intelligence, si è notato che una delle principali ripercussioni che subisce un Paese sotto attacco è il trauma collettivo della popolazione.
Non è più solo chi subisce direttamente l’attacco ad essere intaccato dalla paura della morte violenta, derivata dall’evento terroristico, ma più in generale lo Stato e i suoi cittadini.
Si sente quindi l’esigenza crescente di “immunizzare” la propria società preparando i cittadini agli effetti di un attentato così che essi stessi possano diventare parte di un sistema antiterrorismo unidirezionale e coeso contro il quale i gruppi terroristici possano arrecare danni, soprattutto psicologici, limitati.
Alla base del concetto di resilienza civile troviamo l’elementare logica per la quale il terrorismo ha come scopo ultimo quello di innestare il seme del terrore, appunto, al fine di manovrare i decisori politici verso azioni diverse da quelle intraprese.
Tuttavia se il panico e il terrore non si scatenano e la popolazione viene addestrata a reagire in modo razionale, il terrorismo perde di efficacia e persino la sua stessa ragione di esistere.
Alcune piccole realtà statuali come Israele, tra le più famose, hanno provato a mettere in pratica questo modello con risultati piuttosto soddisfacenti.
Tuttavia in Paesi grandi, con maggiore stratificazione tra classi sociali, con maggiori diseguaglianze e, soprattutto, con fasce di popolazione prive di prospettive e visione d’insieme, gli sforzi per far comprendere l’importanza della resilienza civile dovrebbero essere molto maggiori in valore assoluto e di difficile implementazione a costi e tempi ragionevoli.
La resilienza civile è una di quelle misure che potremmo definire ‘cuscinetto’ per evitare che la popolazione crolli sotto i colpi del terrorismo; è una misura del tutto palliativa e non preventiva della minaccia come invece lo è il progetto ‘cittadino attivo’.
Perché sia messa in pratica la resilienza civile, è fondamentale comprendere le origini del fenomeno terroristico e le sue caratteristiche, quali sono i punti di forza dei movimenti terroristici, quali i loro obiettivi tattici e strategici.
Lo studio delle origini del fenomeno jihadista e delle sue contraddizioni più evidenti con l’Islam professato quotidianamente da milioni di cittadini musulmani in tutta Europa servirebbe ad evitare analogie errate che pretendono di unificare la dottrina islamica al terrorismo.
Un gioco fondamentale nella resilienza civile la gioca la cattiva informazione o la poca informazione, che portano a loro volta ad un grande margine di interpretazione personale o giornalistica dei fatti; quest’ultima in particolar modo se non veicolata da esperti del settore rischia di essere una cassa di risonanza importante per i terroristi stessi.
In Italia, il concetto di resilienza civile è mal gestito dai media che lo confondono con un sistema per aumentare la sicurezza nelle città, invalidandone l’efficacia ed alimentando un clima di rabbia e risentimento verso gli islamici e gli immigrati nordafricani.
Il discorso sulla resilienza civile deriva proprio dalla corretta veicolazione delle informazioni che devono essere lasciate ad esperti così che la popolazione possa essere non solo informata ma istruita sul terrorismo e sulle sue origini.
In secondo luogo, una società coesa lascia poco spazio di manovra a cellule terroristiche, che avrebbero difficoltà a nascondersi, trovare supporto operativo e logistico.
Questo è un discorso che riguarda, in Italia ed in Europa, soprattutto i ghetti razziali o religiosi che si sono formati in molte grandi città, fenomeni di questo tipo aumentano a dismisura la condizione di insicurezza perché fanno risultare la popolazione come un gruppo discontinuo e non uniforme che si muove con intenti e finalità diverse.
Si limita inoltre, in assenza di ghetti, la possibile insorgenza di fenomeni di radicalizzazione, favorita da una serie di fattori culturali e sociali tipici delle zone ghettizzate.
La continuità dell’opera di rafforzamento della capacità diffusa di comprendere e reagire alle tematiche che riguardano la minaccia terroristica è la chiave del successo di questo tipo di strategie.
In effetti, la prima basilare misura è la scolarizzazione diffusa, sia tramite il sistema scolastico ordinario che con iniziative dedicate, sui temi che riguardano lo Stato e la religione dal punto di vista storico e filosofico.
In seguito, la preparazione specifica su come comportarsi in caso di attacco terroristico dovrebbe essere oggetto di corsi per operatori di protezione civile, personale di sorveglianza e privati cittadini interessati.
Questo ultimo punto è il più combattuto da chi vorrebbe un cittadino non solo consapevole ma anche capace di reagire davanti ad un attentatore.
Misure di questo tipo non fanno parte del concetto di resilienza civile e nemmeno sono utili allo scopo, perché rischiano di peggiorare la situazione con iniziative personali del tutto errate dettate dalla convinzione del singolo di poter gestire la sicurezza collettiva in assenza di forze preposte a farlo.
La resilienza civile è un programma complesso da attuare ma possibile che potrebbe effettivamente portare risultati rilevanti se gestita come un supporto serio e volto ad evitare il crollo psicologico in caso di eventi traumatici.