L’Italia sulle ”unioni civili” come riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso la cui relazione affettiva abbia caratteri di stabilità analoghi alle coppie eterosessuali che decidano di contrarre matrimonio è in ritardo, e questo vuoto legislativo viola l’articolo 8 della Convenzione europea relativo al rispetto per la vita privata e familiare. Questo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani, non altro. Ha cioè ribadito qualcosa che nel dibattito pubblico italiano è abbastanza assodato, e non trova opposizioni di principio significativo anche in ambito cattolico o religioso. Non ha affatto legittimato la richiesta di ”matrimonio omosessuale”, cioè fondamentalmente l’equiparazione tra la doverosa tutela giuridica e sociale delle unioni di coppia dello stesso sesso e il matrimonio come istituto giuridico che riguarda le coppie eterosessuali (e il nesso ”naturale” da sempre socialmente protetto tra sessualità e filiazione che qui è custodito per tutta la società, anche per chi a questo nesso non sia ”vocato” per la natura del proprio orientamento sessuale nella sua espressione di coppia o per scelta esistenziale).
La grancassa che in alcuni ambienti si sente battere su questo equivoco ”giuridico” ha i toni fondamentalmente – dopo decenni di colpevole ritardo, per cui onestamente due mesi in più non sembrano uno scandalo – di una richiesta di legislazione d’urgenza, stretta tra la cogenza della direttiva della Corte e la pressione emotiva, per arrivare ad una legge che fondamentalmente equipari le unioni omosessuali al matrimonio. Chi questo vuole per onestà intellettuale e politica non aggiunga norma a norma, ma chieda semplicemente una liberatoria erga omnes per accedere all’attuale istituto del matrimonio. E’ più chiaro, si fa prima, e ciascuno potrà poi giudicare (anche nelle urne). Se invece si è più seri, si ragioni con pacatezza e disponibilità verso i diritti di tutti – i figli, e la società, che anch’essa nella sua natura di individuo collettivo ha diritti ed esige da chi ne fa parte correlativi doveri – e non solo delle persone omosessuali.
Come è noto i punti di più stringente difficoltà sono due. Il regime della filiazione nelle coppie omosessuali, la reversibilità pensionistica. Il primo punto attiene a diritti individuali terzi da proteggere: quello di un figlio, che in linea di principio ha diritto a una doppia genitorialità ancorata al profilo della differenza sessuale. Non vedere il problema, al netto dell’empiria di situazioni di fatto che ”evadono” questo diritto e che tuttavia vanno tutelate, è pura ideologia; figlia di un individualismo proprietario che in nome del proprio desiderio pensa di aver diritto a tutto nel supermercato della vita. Su questo c’è ormai una letteratura sterminata, andrebbe almeno controllata.
Il secondo punto attiene a problemi di welfare e delle sue priorità, e non è un problema morale, ma più propriamente di equità sociale, che andrebbe inquadrato in un più generale discorso di tutela della famiglia che alla società fornisce la sua cellula riproduttiva, la sua prima ”risorsa”, dove si origina e riproduce.
Risorsa, tanto per ricordare, viene dal francese ressource, che deriva dal latino resurgere, ”risorgere”: nella famiglia naturale come coppia eterosessuale riproduttiva la società risorge a se stessa, lì dove è sorta. Insomma alla fine un motivo c’è, se da sempre è socialmente tutelata come istituto di “diritto naturale”. Possiamo anche esercitarsi a smontare teoria e storia del diritto naturale (è stato per altro anche fatto, come tante altre cose); è più difficile smontare i fatti che quel diritto in cordibus, cioè nel senso comune, da sempre protegge.
Fatte queste due notazioni, con urgenza riflessiva si legiferi come chiede la Corte, ma non si dica che la Corte ci ha detto come legiferare. Su questo non abbiamo tanto una riserva di sovranità nazionale, che la Corte non ci vuole certo togliere, ma una riserva di sovranità razionale, di cui tutti siamo i soli custodi.