Il titolo del tema sul quale siamo oggi chiamati a riflettere, prima di interrogarsi sul ruolo del non-profit, richiama i termini di giustizia e legalità. Giustizia e legalità non corrispondono però ad un concetto unitario, nel senso che i due termini non costituiscono un’endiadi, che è quella figura retorica che esprime con due termini coordinati un unico concetto.
Giustizia e legalità sono, invece, termini assolutamente distinti. Legalità significa rispetto delle leggi che il cittadino è tenuto ad osservare, e poco importa se a loro volta queste leggi siano il frutto di una decisione democratica oppure discendano da scelte imposte dal dittatore di turno. Il termine giustizia evoca, invece, un concetto più ampio, più alto, che può coincidere, come anche non, con la lettera e con lo spirito delle singole leggi che il cittadino è comunque tenuto a rispettare.
Ognuno può dunque avere un suo concetto di “giustizia”, che lo può portare a considerare giusta o ingiusta questa o quella norma, questa o quella legge, a seconda dei propri orientamenti culturali, morali, filosofici, religiosi, ecc.
In ogni sistema democratico ad ogni cittadino che ravvisi un contrasto tra ciò che è legale è ciò che è giusto è dato il potere di provocare le modificazioni delle norme che egli reputa ingiuste, oppure l’introduzione di quelle che egli reputa mancanti, con tutti gli strumenti che la legge gli mette a disposizione (es.: la partecipazione alla vita politica ed amministrativa, il referendum popolare, la denuncia di incostituzionalità di una norma che deve essere applicata nel corso di un processo civile o penale, ecc.).
Quando il cittadino tenta di provocare la modificazione delle norme da lui ritenute ingiuste mediante strumenti non legali, si pone perciò solo al di fuori della legalità, determinando però, se riesce nel suo intento, una rottura della continuità della legalità.
Così chi vince una guerra o una rivoluzione per affermare un ideale astratto di giustizia lo fa sì per vie illegali, ma è subito dopo in grado di attribuire il crisma della legalità a ciò che un attimo prima non lo era: di qui l’affermazione di molti filosofi, secondo cui il diritto in buona sostanza è soltanto forza, nel senso che chi ha più forza è in grado di stabilire cosa sia legale e cosa non.
Tuttavia ogni sistema giuridico positivo, per il solo fatto di essere legale, pretende anche di essere giusto. Non a caso l’art. 101 della Costituzione prevede ad esempio che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”.
Se quello che ho premesso è vero, nell’art. 101 Cost. dovremo, allora, più realisticamente leggere che è la legalità, e non la giustizia, ad essere amministrata in nome del popolo.
Per quanto riguarda, in particolare, l’ambito della giustizia penale, che è quello che si occupa della repressione di quei comportamenti considerati a tal punto gravi da essere ritenuti meritevoli della sanzione criminale, il discorso sostanzialmente non cambia.
In questo settore, però, è più evidente l’atteggiamento del legislatore inteso a considerare come giuste la maggior parte delle norme incriminatrici, almeno quelle che riguardano i delitti cosiddetti naturali come l’omicidio, la rapina, il sequestro, la violenza sessuale, ecc., vale a dire quei comportamenti normalmente non tollerati in quasi tutte le società di quasi tutte le epoche della storia.
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Un atteggiamento di maggiore umiltà e modestia si rinviene invece per quanto riguarda i reati cd. formali, cioè di creazione legislativa, i quali cioè offendono beni o interessi considerati estranei al diritto naturale, rispetto ai quali il susseguirsi ed il moltiplicarsi di norme che escludono la punibilità, che depenalizzano, che diminuiscono o aumentano le pene, ecc., è così frequente da denunciare all’evidenza che la repressione di certi comportamenti è legata solo a contingenti valutazioni di politica criminale (si pensi alla guida senza patente che era reato, poi è stato depenalizzato, e che oggi di nuovo costituisce reato; alla guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico dallo 0,5 a 0,8 mg. per litro, che ieri era reato e da qualche giorno – salvo che per i neopatentati – non lo è più, ecc.).
Ma, tornando al discorso della giustizia penale che reprime i cosiddetti delitti naturali, rispetto ai quali sembra evidente che l’uso del termine giustizia sia più che corretto dato che, in buona sostanza, si tratta di comportamenti contrari ai comandamenti fondamentali (non uccidere, non rubare e non dire falsa testimonianza), siamo poi così sicuri che sia corretto usare il termine di giustizia e non invece, anche in questo caso, quello di legalità?
Per esserne sicuri i credenti dovrebbero ad esempio provare che il concetto umano di giustizia, almeno in relazione a questi reati, coincide con il concetto divino di giustizia. E qui viene il bello, perché gli attributi della giustizia umana sembrano del tutto diversi da quelli della giustizia divina.
A guardare bene il primo attributo della giustizia umana è infatti quello di essere retributiva, cioè di prevedere risposte sfavorevoli a carico di chi trasgredisce la legge. Esiste cioè una simmetria, un sinallagma, un rapporto di scambio sfavorevole, tra il comportamento illecito del soggetto e la conseguenza che la legge ne trae.
La giustizia umana si considera paga e ritiene di avere raggiunto il proprio scopo quando dopo la commissione dell’illecito realizza la retribuzione, infligge il castigo, nel contempo tranquillizzando la comunità (ho assicurato alla giustizia un delinquente catalogato tra i cento più pericolosi, ecc.).
Assai più arduo è parlare di come Dio intenda la giustizia. Colpisce anzitutto, leggendo i sacri testi, il racconto degli interventi punitivi di Dio nei confronti dell’uomo o dei popoli che si discostano dalla sua volontà.
L’immagine di un Dio spietato e vendicativo, facile all’ira e pronto a reagire all’ingiustizia, quale può trarsi dalla lettura di alcuni brani del Vecchio Testamento, è anzi quella su cui molti atei fanno leva per contestare i credenti.
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Se però ripensiamo al racconto di Adamo ed Eva all’origine dell’umanità ed alla pena che ne è conseguita, o al fratricidio di Caino, o al peccato di Davide, che fa uccidere in guerra Uria l’Hittita per prendersi sua moglie Betsabea, e che viene punito da Dio con la morte del figlio concepito con lei (salvo poi avere da lei un secondo figlio, che era Salomone), e se allunghiamo la lettura anche al Nuovo Testamento, dove troviamo la parabola del figliol prodigo, che rifiuta di vivere con il padre e se ne va, ne possiamo trarre le quattro indicazioni che il cardinal Martini – in un suo breve saggio sulla giustizia (Mondadori, 1999) – ha definito i quattro momenti dinamici della pena nella concezione divina:
1. nella colpa c’è già la pena. I peccatori della Bibbia prendono gradualmente coscienza che, commettendo una certa mancanza, si sono autocondannati a vivere al di fuori della famiglia di Dio, a vivere da stranieri. Nella colpa c’è insita una sconfitta, un fallimento, e dunque sofferenza ed umiliazione;
2. la colpa trasforma la pena in responsabilità. Ci ha sbagliato dovrà assumersi, come pena, responsabilità più gravi e onerose per riguadagnarsi la vita: faticare alla ricerca del pane, adattarsi alla vita di servo, ecc.;
3. la pena non cancella la dignità dell’uomo, non lo priva dei suoi diritti fondamentali (rispetto, nutrimento, istruzione, famiglia, libertà, solidarietà). Nessuno viene sradicato per essere rinchiuso in un luogo irreale e snaturato (come può a certi effetti essere considerato il nostro carcere moderno). Avendo però negato la paternità di Dio e infranto i rapporti pacifici con il prossimo e con se stesso, il colpevole dovrà percorrere un duro cammino di ritorno verso la felice realtà di partenza, il recupero della propria dignità, il rientro nella comunità. Tale cammino di conversione è la vera e unica pena richiesta da Dio per ridonare ai peccatori la remissione della colpa;
4. Dio non fissa il colpevole nella colpa identificandolo in essa.
L’unico e vero giudice dell’uomo è Dio, che trasmette a tutti i colpevoli anche la speranza in un futuro migliore, mira alla riabilitazione completa, chiede loro di non ripetere il passato errore e di risarcire il male compiuto con gesti positivi di giustizia e di bontà. A tutti poi offre sempre l’aiuto necessario per vivere da uomini giustificati.
Questi quattro momenti dinamici della pena assumono il loro senso definitivo nella passione di Gesù, che si fa carico di tutto il male del mondo morendo per tutti.
La pedagogia biblica del superamento del peccato e della riabilitazione del peccatore si evolve con l’evolversi della cultura e della mentalità del popolo di Dio, purificandola e perfezionandola. La definitiva volontà del Padre, il suo progetto, è il perdono e la salvezza per tutti in Gesù Cristo. Nella lettera ai Romani (3, 21-26) S. Paolo spiega che è per questa via che i due attributi di Dio, apparentemente antitetici, cioè la giustizia e la misericordia, si saldano: se Dio avesse semplicemente ignorato il peccato, non sarebbe stato giusto. Però, riversando la sua giusta ira sull’umanità, non sarebbe stato misericordioso. Così, quando ha mandato Gesù per essere punito al posto nostro, ha rispettato la Giustizia e, al tempo stesso, ha esercitato tutta la sua misericordia, riservandoci una via di uscita dalla condanna eterna.
Se l’unica e vera pena che Dio pretende dall’uomo è il cammino di conversione, possiamo definire la giustizia di Dio come una giustizia “dinamica” che si contrappone alla tendenziale staticità delle risposte date dalla giustizia umana.
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Per la nostra giustizia penale, invece, la resispiscenza, il pentimento, le attività di riparazione successive alla commissione dell’illecito, lo stesso perdono della persona offesa, servono solo (e non sempre) ad attenuare, ma giammai ad elidere del tutto, la risposta punitiva dello Stato, la quale scatta spesso anche senza, e magari contro, la volontà della persona offesa.
La giustizia degli uomini quasi mai è portata a guardare “in interiore homine”, in quanto essa si limita a giudicare le azioni dall’esterno, pur pretendendo che esse appaiano come espressione della libera volontà dell’uomo (la responsabilità penale presuppone pur sempre la capacità di intendere e di volere).
Da questo punto di vista, appare perfettamente logico che il disvalore connesso ai diversi reati sia proporzionale alla gravità dell’offesa arrecata ai beni giuridicamente protetti (così, a scalare: vita, libertà, patrimonio, onore, ecc.).
Diversamente è invece a dirsi dal punto di vista di Dio: Dante, ad esempio, nel delineare i nove cerchi concentrici degradanti verso il centro della terra, li ordina distribuendoli a seconda della gravità dei peccati, prendendosi però la libertà di considerare un assassino meno malvagio di un falsario di monete o addirittura di un ladro, valorizzando in questo la determinazione al male, la lucidità della scelta malvagia, più che l’evento malvagio considerato dal punto di vista del danno che esso ha prodotto.
A Dio interessa infatti il cuore dell’uomo, ed è per questo che – se il cuore si converte – è come se non avesse mai peccato.
Anche qui c’è una differenza tra il perdono di Dio e quello che può essere preso in considerazione dalla giustizia umana: il perdono di Dio non si limita alla cancellazione della colpa, ma agisce più in là, operando come se la colpa non si fosse mai verificata (noi invece siamo molto diversi, perché la giustizia umana – anche se prevede la riabilitazione del condannato – lascia un segno perenne nella considerazione sociale: quello è fallito, è stato in carcere, è stato indagato, è stato un terrorista ed ora siede in Parlamento, era delle Brigate rosse ed ora è consulente del ministro, ecc.).
Diversi passi del Vangelo sono poi molti divertenti quanto al rapporto tra Gesù ed il concetto di giustizia umana: ciò che Dio pretende dall’uomo è di molto superiore a quello che è necessario fare per osservare la legge umana e corrisponde a quella che è stata chiamata la sfida impossibile che Dio lancia all’uomo: Mt. V, 22: “Io vi dico che se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli; vi fu detto non uccidere, e chiunque avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio; ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello “stupido” sarà sottoposto al sinedrio; ma io vi dico: se tu presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, ecc., ecc.; avete inteso che fu detto: non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore; avete inteso che fu detto: occhio per occhio, dente per dente; ma io vi dico: se uno ti percuote la guancia destra, porgigli anche l’altra; a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello; se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due…, ecc.
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La giustizia di Dio è quella che si diverte a pagare l’operaio che ha lavorato nella vigna solo per un’ora allo stesso modo di quello che è rimasto otto ore sotto il sole; è la giustizia che salva l’adultera che tutti vorrebbero linciare; è quella che si traveste da ultimo (affamato, assetato, prigioniero, nudo, ecc.), per controllare come l’uomo si comporta verso il suo simile in difficoltà; la giustizia divina è quella che paga il centuplo di quello che secondo gli uomini sarebbe giusto: quindi è una giustizia completamente “sparametrata” rispetto alle categorie umane: l’unico suo metro valutativo è rapportabile all’amore di Dio, parametro insondabile per la mente umana. Ciò nonostante, la giustizia umana rappresenta pur sempre un ideale nobile cui ogni persona, a prescindere dalla fede professata, deve tendere.
La giustizia umana, anche nel più efficiente degli ordinamenti giuridici statali, è però per sua natura fallace ed imperfetta. Ciò può dipendere da vari fattori: 1) dall’ingiustizia intrinseca delle leggi: è sufficiente pensare che, come ho sopra ricordato, ogni norma giuridica è l’espressione del più forte; 2) oppure dal carattere farraginoso e complesso della legislazione, che ne rende l’applicazione irta di difficoltà; 3) dalla difficoltà di ottenere in pratica la realizzazione di un proprio diritto, come ad esempio avviene per carenza delle prove disponibili (si dice che davanti ad un giudice non avere un diritto oppure averlo, ma non riuscire a dimostrarlo, è la medesima cosa).
È noto a tutti, inoltre, lo stato lacrimevole in cui versa l’amministrazione della giustizia nel nostro paese a causa dell’ineffettività della tutela giurisdizionale dei diritti, della lunghezza “biblica” dei processi, dell’uso distorto di certi istituti processuali, dell’incertezza e dell’inefficacia delle pene (quali comprovate dall’altissimo tasso di recidiva, il quale dipende dalla mancanza di trattamento volto all’innesto di un processo di revisione critica), dallo stato di grave disfunzione organizzativa e di arretratezza tecnologica di molti uffici giudiziari, dai cattivi esempi offerti da uomini rappresentativi della giustizia e dello Stato in generale: questi fattori, unitamente ad un decadimento dell’etica pubblica e dello spirito di servizio, nonché ad una campagna interessata volta a screditare e delegittimare la giustizia, hanno fatto precipitare la giustizia a livelli assai scarsi quanto a prestigio e credibilità delle proprie istituzioni.
Resta pur sempre, per chi si occupa dell’esecuzione della pena, l’entusiasmo di essere chiamato ad occuparsi della realizzazione della grande idea, che oggi troviamo scolpita nel 3° comma dell’art. 27 della Costituzione, che è quella secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato.
La pena, cioè, deve in sé contenere un messaggio di speranza, deve essere uno stimolo al cambiamento, deve contenere delle proposte, deve essere portatrice di un invito. Deve avere in sé gli stimoli per accompagnare il soggetto da una situazione ad un’altra situazione.
Questo concetto, oltre che ad essere in linea con l’idea della centralità della persona umana sposata dalla nostra Costituzione ed alle correnti ideali di pensiero che hanno tutte insieme contribuito alla scrittura del suo testo, che molti paesi ci invidiamo ma che noi riteniamo di oggi aggiornare, a che serve?
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Serve anzitutto al condannato, perché innesta in lui un processo virtuoso che lo porterà, un domani, ad astenersi dalla reitera. Serve alla società considerata nel suo complesso, perché avrà un delinquente in meno che mette in pericolo gli interessi fondamentali della convivenza civile. Serve in certi casi alle stesse persone offese dal reato, le quali possono sentirsi ristorate dal fatto che l’autore del delitto che le ha colpite si sia reso conto del male causato, abbia sviluppato un processo di revisione critica per il male commesso, si dia da fare per contribuire al risarcimento del danno, ecc.
Ebbene: credo che il fallimento del sistema dell’esecuzione penale in Italia sia in gran parte ascrivibile alla mancata attuazione del carattere costituzionale che la pena dovrebbe avere.
Da questo punto di vista il ruolo degli enti non-profit impegnati negli istituti di pena è fondamentale: un’organizzazione che si basa sul non-profitto, che lavora per gli altri più che per sé, che è obbligata a reinvestire gli utili in altrettante opere per gli altri, è il segno della controtendenza, il segnale rieducativo che per eccellenza può indurre chi ha delinquito, soprattutto per ragioni collegate al proprio profitto materiale o morale, all’osservanza delle regole dell’altruismo, della solidarietà, dell’umanità. In sostanza alle dimensioni di quel cuore che è insito nella natura dell’uomo e che lo spinge a desiderare quelle cose più grandi che stanno oltre i suoi confini.