Dodici ore di pioggia e il Veneto torna indietro di cinque mesi: a mollo fisicamente, dopo l’alluvione di inutili parole e di sterili promesse seguita a quella fisica registrata nell’ottobre scorso.
Ma la cosa peggiore è che nulla o quasi è cambiato rispetto a un tempo molto più remoto: il tragico autunno del 1966, con l’immagine-emblema di una Venezia finita sott’acqua, e con mezza regione devastata.
L’aveva già spiegato a chiare lettere, e l’ha ribadito in queste ore, uno dei massimi esperti, come sempre inascoltato. “Non è un problema nuovo, lo conosciamo bene fin dal 1966; e all’epoca avevamo anche spiegato cosa bisognava fare per evitare analoghe calamità”, sottolinea Luigi D’Alpaos, che insegna Idrodinamica alla facoltà di Ingegneria dell’università di Padova. E del quale ci si è ricordati nell’ottobre scorso, di fronte alla nuova alluvione: quarantacinque anni fa, aveva fatto parte del gruppo di esperti che aveva studiato il disastro, e proposto i rimedi.
Dal Bacchiglione salito a livelli di guardia nel centro di Vicenza, agli smottamenti registrati sui Colli Euganei, le cronache di queste ore ripropongono, insieme, la conta dei danni e la denuncia dell’inerzia. Impietosamente denunciata, quest’ultima, qualche settimana fa da un gruppo bi-partisan di sindaci padovani, con una lettera da cui si ricavava che dei fondi promessi si erano viste solo le briciole, e, soprattutto, che gli interventi erano di fatto bloccati; inclusi quelli di ripristino degli argini smantellati dalla furia dei fiumi.
Quale sia l’esatta fotografia del Veneto che rischia di finire sommerso e devastato, d’altra parte, l’ha indicato da tempo un rapporto di Legambiente: 161 Comuni su 581 (dunque oltre uno su quattro) in condizioni critiche, di cui 108 a rischio alluvione e 41 a rischio frane; 12, in particolare, minacciati da entrambe. Servirebbero 2 miliardi e mezzo di euro per riparare i danni dell’ottobre scorso e mettere in sicurezza il territorio.
Ma ad oggi gli unici soldi sono i 300 milioni che l’accoppiata Berlusconi & Bossi era venuta a promettere di persona, oltretutto con un ritardo di giorni e dopo essersi concessa un tranquillo week-end, nell’ennesima passerella mediatica. Di quelle briciole è arrivata appena la metà; e pure questa mancia viene erogata con esasperante lentezza. Al punto che Giovanni Miozzi, presidente Pdl della Provincia di Verona, l’altro ieri ha tuonato: “Adesso voglio la testa di qualcuno, chi ha dormito vada a casa”. Uno sfogo dettato dal primo parziale, ma già micidiale, bollettino dal fronte scaligero: l’esondazione dei fiumi Alpone e Tramigna, con una ventina di sfollati.
Il fatto è che per mettere in moto i cantieri richiesti dai danni di ottobre gli uffici hanno avviato la consueta esasperante trafila burocratica, fatta di timbri, carte bollate, permessi da firmare, circolari e quant’altro. Peccato che il meteo abbia il difetto di prescindere dalle scartoffie e dalle procedure, e che in queste ore abbia presentato un nuovo conto, sia pure parziale.
Il presidente della Regione Zaia spiega che sono già stati erogati acconti per un importo del 30% (poche decine di milioni) ai sindaci, e che oggi i soldi in cassa sono 150 milioni. Con i quali bisognerebbe sistemare argini, organizzare bacini, allestire casse di espansione: cifra ridicola per un compito del genere, e, soprattutto, per quell’organico progetto di ingegneria idraulica di cui il Veneto avrebbe vitale bisogno dal 1966, come segnalato dal professor D’Alpaos.
Quanta acqua dovrà passare, ahimè non sotto i ponti ma sopra, prima che chi di dovere capisca?