Il quotidiano dei vescovi, l’Avvenire, ha deciso di intraprendere un’insolito e interessante reportage in un mondo spesso discusso, criticato e “immaginato” tra diverse teorie contrapposte. Ma difficilmente sondato in prima persona e con l’occhiale della sensibilità e del giudizio, e non dell’insulto o dell’ideologica difesa a priori: stiamo parlando del “fenomeno” transgender. È decuplicato negli ultimi anni il numero in Italia di chi chiede la “rassegnazione chirurgica” del sesso: chi non si sente se stesso nel proprio corpo diventa sempre più un’emergenza non tanto in termini numerici ma per una più piena comprensione di cosa muove e dove andrà questa società. Luciano Moia per l’Avvenire ha deciso dunque di fare un giro e un lungo reportage al padiglione dell’ospedale di Niguarda dove avvengono le tante operazioni di “cambio gender”, e quanto ha trovato è decisamente lontano da quanto di norma si legge su media e social. «Ci sono le cosiddette teorie del gender. E c’è la realtà. Le teorie, come più volte spiegato su queste pagine, sono un confuso minestrone cucinato con tocchetti di vetero femminismo e con brodo di utopie biofilosofiche, quelle secondo cui il ‘binarismo sessuale’ (maschio-femmina) è un’arma del potere politico e religioso per tenere in schiavitù la persona. E quindi, solo fluidificando il genere sessuale, si può sperare di riconquistare la libertà perduta. Poi c’è la realtà. […] c’è la grande la sofferenza di queste persone, vasto e profondo il disagio di trovarsi in un corpo che non sentono come proprio. Un baratro di dolore che sarebbe davvero difficile spiegare soltanto con le influenze negative derivanti dalle cosiddette teorie gender».
IL DOLORE
Adolescenti, persone adulte, giovani che non si sentono più tali: sono tanti qui a Niguarda che si sentono ingabbiate nel loro corpo e che vengono a richiedere la cura della disforia di genere (o disturbo della differenziazione sessuale). Come spiega il reportage di Avvenire, secondo gli esperti se il dato patologico è costante, sono invece aumentate le richieste da parte dei soggetti suggestionabili, le persone affette cioè da sofferenze psichiche di vario genere che si illudono di risolverle ‘provando’ a cambiare sesso. In tanti vengono scoraggiati a Niguarda dal fare il passaggio di sesso, visto che spesso le motivazioni sono molto profonde e non sarebbe una operazione a “risolvere” il dramma e il dolore. Sì, di dolore si tratta e si parla: chi per mesi si fa colloqui, accertamenti medici, somministrazioni ormonali e infine l’operazione è legato ad una sofferenza enorme nel non riuscire ad accettare sé e il proprio corpo. «Bisogna avere l’umiltà e la pazienza di andarla a vedere da vicino, senza pregiudizi e senza la pretesa di teorizzare su ciò che si ignora»: l’incontro con Maurizio Bini, che dirige l’ambulatorio a Niguarda, è significativo per l’inviato dell’Avvenire. «È un grande professionista ma è anche un medico fuori dall’ordinario perché, accogliere, ascoltare, comprendere e consigliare questa umanità dissociata e incerta, mantenendo il sorriso di un profilo umano leggero, ma sempre incoraggiante, è tutt’altro che agevole».
LE ILLUSIONI
Le storie raccontate dal medico e l’incontro con alcune persone che vivono il passaggio verso lo status di transgender mostrano da un lato tutta la sofferenza di queste persone, dall’altro la profonda illusione dei molti che credono di sistemare il proprio dramma compiendo “il passaggio”, magari imbevuti da quell’ideologia gender che come tale, teoria, è sempre minore alla realtà. Si arriva ai limiti dell’assurdo, come quella ragazza 25enne che racconta la sua storia mentre sta compiendo il passaggio al sesso maschile ma scopre che a quel punto non potrà sposare in Chiesa la sua fidanzata. «Di tanto in tanto la voce s’incrina e gli occhi luccicano. Come quando scopre che, diventato finalmente uomo, non potrà sposare la sua fidanzata in chiesa. “Ma io mi sento pienamente eterosessuale e, quando anche dal punto di vista anatomico, non ci saranno più problemi, chi me lo impedirà?”». Il medico replica con pazienza al futuro giovane trans, «Il mio ruolo non è quello né di reprimere né di incoraggiare queste scelte. Verifico che si tratti di un percorso adeguato per i problemi che le persone manifestano, e controllo la correttezza della terapia, conservando la mia libertà, come i pazienti conservano la loro». E poi tantissimi altri casi raccontati (eccoli qui nel reportage integrale) in cui il punto di base è sempre la particolarità e la fatica tutta personale dei vari casi di futuri o già avvenuti transessuali: turbe, dolore fisico e mentale, senso di abbandono, rivendicazioni ideologiche e richieste di semplice aiuto. C’è tutto in questo reportage e c’è tutto in quel mondo, non certo diverso da quello “normale”. Resta però lo spazio della realtà e della misericordia di poter stare di fronte a quelle persone senza giudicarle, da un lato, ma prendisole sul serio dall’altro, ovvero mostrando tutta l’assurdità e il contraddittorio dolore che genera la “fluidità” di genere. «Perché se è vero, come scrive papa Francesco, che “ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto” (Al, 250) quanto è difficile farlo quando ci si trova davanti alle espressioni più complicate, contraddittorie e disturbanti di questo orientamento», conclude l’Avvenire.