A stupirmi è lo stupore di chi ancora si stupisce delle nefandezze perpetrate nel silenzio delle patrie galere. Dopo il reato di tortura — con il quale l’Europa ha sanzionato l’Italia per il trattamento inumano che riserva nelle sue carceri — cosa potrà diventare cagione di stupore? Oltre la violazione della dignità, rimane solo la morte, la violazione stessa del diritto alla vita. Quelle morti che, dentro le carceri, rimangono troppo spesso dei pensieri in sospeso, dei conti-che-non-tornano. Sembra cosa assai paradossale: nella patria del diritto, il trattamento dell’umano pare essere una cosa che va davvero storta, che sembra essere proprio foresta alle logiche più elementari. Perché di logica elementare si tratta, quella stessa che quando manca partorisce affermazioni dislessiche come “Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati straordinari”. Parole che non sono un insulto al buon senso, bensì all’intelligenza umana. Quella che se non c’è, fa la differenza.
Anche quando c’è.
Parole, quelle intercettate dal detenuto e pubblicate ieri da Repubblica, che tratteggiano una realtà che è sotto gli occhi di tutti: il carcere, luogo che per sua natura dovrebbe essere un laboratorio di ricostruzione, il più delle volte si mostra come un luogo di decostruzione di quel poco ch’era rimasto, magari dopo un gesto delittuoso. Rimettere mano ad una strada slabbrata non è mai affare semplice, eppure tentare si deve, è necessario: nonostante tutto, in condizioni quasi impossibili, al limite della sopportazione. Chi decide di investire la sua vita in quella terra-di-mezzo che è una galera, sa che non si tratta di fare il sacrista in un convento di novizie. Per questo il senso dell’umano dovrebbe eccellere, il rispetto della Costituzione essere il fondamento di uno stile, l’uomo una scommessa non solo da correre ma che, addirittura, si può portare a casa. Gli agenti di polizia, spesse volte, lavorano in condizioni pietose: non sono gli unici, però, a farlo. Nemmeno i volontari trovano sempre giornate d’oro per ricostruire l’umano, a volte anche a causa di un’ostilità voluta, sponsorizzata. L’inadeguatezza delle condizioni, però, non giustifica l’inadempienza dello stile. Di una maleducazione del pensiero, delle gesta, dell’umanità. Di un tradimento della propria presenza: Despondere spem munus nostrum (“Dispensare la speranza è la nostra missione”) è il motto che campeggia sotto lo stemma della Polizia Penitenziaria. L’esatto contrario del diffondere la speranza con la violenza.
Arrendersi, dunque? Nemmeno il minimo dubbio: nel nome dell’onestà che “non tutti sono così”. Sono proprio quelli-rimasti-umani a firmare la condanna dei loro colleghi: con la disapprovazione quando capitano certi eventi, con l’amarezza di vedere denigrato un intero corpo di polizia, con la constatazione che il gustoso, alla lunga, varrà più del disgustoso. Lo leggo nei loro occhi, negli occhi dei miei agenti-angeli, nelle parole di chi, pur con la divisa, rimane uomo appieno. Anche con la forza della denuncia di chi, pur libero, sa leggere l’angelico anche quand’è nascosto sotto la pelle dell’animalesco.
Ciò che manca in chi manganella è, forse, proprio questa sfumatura: la consapevolezza d’essere, sotto la divisa, un uomo come loro, né migliore, né peggiore. Magari condita da un pizzico di cultura e di pensiero. Quella cultura che non è tanto sapere L’Adelchi del Manzoni a memoria, nemmeno l’Anabasi di Senofonte, ma la cultura in senso classico: il coltivare, l’annaffiare, l’irrigare. L’aratro, ma anche l’ago e il filo.
Queste intercettazioni non rendono onore al carcere. Non rendono onore, soprattutto, a chi le ha firmate. Hanno tradito, per prima cosa, la fedeltà a ciò che hanno professato: alla speranza, alla divisa, alla loro intelligenza. Quale credibilità potranno ancora avere agli occhi di chi in essi s’imbatte? Gente in-credibile, non più credibile. Da riderci in faccia quando ci passi accanto, magari compatendoli per l’insoddisfazione di una professione che non li soddisfa, che non li soddisfa più, che non li ha mai soddisfatti. Forse a qualcuno ancora sfugge che i poveri hanno tanta memoria: non tanto di vendetta, ma memoria d’attendere quando i ruoli s’invertiranno. Come quella volta a Robben Island: hanno tenuto prigioniero un uomo-nero per trent’anni, perché era da rieducare. Dopo trent’anni si sono accorti che, dal carcere, era stato lui a rieducare la società. Ch’era come dire: la logica, certe volte, non sussiste.
Di una cosa anche stanotte son certo: che domattina, a certi agenti-uomini, stringerò la mano con un affetto tutto umano. Oggi mi son reso ancor più conto che rimanere uomo, in certi ambienti, è saper vedere le rose a dicembre, il grano a Natale. L’umano, dentro l’imbecille.