“Di Matteo deve morire. E con lui tutti i pm della trattativa, mi stanno facendo impazzire”. Dal carcere milanese di Opera, dove si trova attualmente, Totò Riina si sarebbe sfogato in questo modo con un altro detenuto, gridando e facendosi sentire da un agente della polizia penitenziaria. “Quelli lì devono morire, fosse l’ultima cosa che faccio”, avrebbe aggiunto il boss corleonese, secondo quanto riportato da Repubblica. Le minacce non sarebbero rivolte solo a Nino Di Matteo, ma anche ai pm Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e all’aggiunto Vittorio Teresi. La tensione torna quindi altissima a Palermo, dove si è riunito d’urgenza il comitato per l’ordine e la sicurezza, presieduto dal prefetto Francesca Cannizzo, durante il quale è stata valutata l’ipotesi di trasferire Di Matteo in una località segreta insieme alla famiglia. “Per il momento non ho alcuna intenzione di lasciare la mia città – ha commentato il pm. So che nella mia terra tanti semplici cittadini condividono un sogno di giustizia e di verità”. Il procuratore di Palermo Francesco Messineo si è detto invece “allarmato” per una notizia che potrebbe rappresentare “una chiamata alle armi che il boss fa ai suoi contro i magistrati che svolgono questa inchiesta”. In tutti i casi, Messineo non ha voluto confermare né smentire “la fondatezza di una notizia che avrebbe dovuto rimanere segreta”. E’ dello stesso avviso anche Leonardo Agueci, procuratore aggiunto presso la Procura di Palermo, a cui abbiamo rivolto alcune domande.
Dottor Agueci, cosa ha pensato quando ha appreso delle minacce di Riina?
Non è di certo la prima volta che i colleghi che si stanno occupando del processo sulla trattativa, e in particolare il collega Di Matteo, sono destinatari di messaggi intimidatori che hanno portato già da tempo all’adozione di particolari misure di tutela. Come accaduto in passato, da parte di tutto l’ufficio dei procuratori aggiunti e dei sostituti c’è la piena solidarietà e la massima vicinanza ai colleghi che in un momento come questo rischiano di veder prevalere un senso di isolamento.
Riina dice “mi stanno facendo impazzire”. Secondo lei a cosa si riferisce?
Bisogna innanzitutto capire se queste affermazioni siano state riportate fedelmente, ma in tutti i casi su questo particolare aspetto preferisco non fare i commenti. I colleghi stanno affrontando con il massimo impegno questo processo, quindi se le parole di Riina fossero effettivamente quelle apparse sui giornali sarebbero la semplice conseguenza dello straordinario lavoro dei magistrati.
Quali conseguenze può avere questa nuova intimidazione?
Quello in corso sulla trattativa tra Stato e mafia è un processo estremamente delicato che deve svolgersi in un clima di assoluta tranquillità. Viene dunque il sospetto che notizie come queste, centellinate con una certa periodicità, si pongano l’obiettivo di turbare proprio questa serenità. Posso dire che faremo di tutto affinché questo non avvenga.
E’ d’accordo con Messineo quando afferma che la notizia avrebbe dovuto rimanere segreta?
Sono assolutamente d’accordo. Pubblicando una notizia del genere non si fa altro che amplificare fatti che dovrebbero essere riservati e che andrebbero affrontati e risolti nelle sedi competenti senza possibili condizionamenti esterni. Il processo deve essere tenuto al riparo da queste vicende, ed è ovvio che tutto ciò non giova alla sicurezza dei nostri colleghi.
Inizialmente si pensava di trasferire Di Matteo in una località segreta. Crede sia la soluzione più giusta?
Si tratta di scelte tecniche riservate agli apparati della sicurezza su cui è difficile fare un commento. Credo però che sia molto importante il fatto che Di Matteo abbia espresso la volontà di rimanere al suo posto, anche perché tirarsi indietro significherebbe in parte dare ragione a chi manovra queste strategie intimidatorie. Inoltre, proprio perché bisogna gestire un processo delicato come quello sulla trattativa, allontanare Di Matteo significherebbe fare a meno di una delle persone che sono maggiormente impegnate su questo fronte. E anche questa sarebbe una forma di condizionamento.
In una precedente intervista, lei ci aveva detto di aver incontrato Paolo Borsellino a Palermo pochi giorni prima che venisse ucciso. Lui, insieme a Falcone, venne trasferito per sicurezza nel 1985 nella foresteria del carcere dell’Asinara. In base alla sua esperienza, quali sono i punti in comune tra quel caso e questo che vede coinvolto Di Matteo?
Stiamo parlando di epoche profondamente diverse. Ho dei ricordi personali molto vividi di quel periodo: non abitavo ancora a Palermo, ma ogni volta che dovevo andarci per motivi professionali o personali si percepiva chiaramente una situazione di città sotto assedio, cosa che oggi effettivamente non c’è più. Bisogna poi dire che, nel caso che viene ricordato, Falcone e Borsellino dovevano redigere l’ordinanza di rinvio a giudizio del cosiddetto “maxiprocesso”, quindi era necessario assicurare ai magistrati una situazione di massima tranquillità. Credo sia normale, dunque, che in un periodo di allarme come quello si decise di adottare tale soluzione. Oggi è tutto diverso, anche se l’attenzione rimane ovviamente altissima.
(Claudio Perlini)