«La lezione degli Usa all’Europa è quella di evitare una certa tendenza a vedere la libertà di religione come un semplice fatto di coscienza privata e nient’altro. Tale libertà ha invece degli aspetti istituzionali e comunitari che non si possono separare, se non al prezzo di svuotare la stessa libertà religiosa, privandola del suo significato e sostituendola con il laicismo di Stato». Lo ha spiegato a ilsussidiario.net Paolo Carozza, membro della Commissione interamericana dei diritti umani e docente di diritto internazionale nell’Università di Notre Dame, Usa, commentando la sentenza della Corte europea che venerdì scorso ha messo la parola fine al caso Lautsi. «Ma c’è una lezione – aggiunge Carozza – che solo l’Europa può dare al mondo».
Cosa pensa di questa sentenza che assolve definitivamente l’Italia?
Rappresenta un fatto molto importante, proprio per le motivazioni addotte. La ricorrente signora Lautsi è riuscita a vincere la prima volta alla Camera con lo stesso argomento che nella sentenza del 18 marzo è risultato perdente, dicendo cioè di non condividere quello che il crocifisso rappresenta, e di sentirsi per ciò stesso discriminata, ma senza presentare evidenze di un impatto negativo sui figli derivante dalla presenza pubblica del crocifisso. La Corte riconosce che sentirsi offesi da un certo simbolo o espressione religiosa non lede i diritti – «la sua (di Lautsi, ndr) percezione personale non è sufficiente a integrare una violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1». E questo è importantissimo, perché oggi è diffusa una tendenza che definisce i diritti umani come diritto di avere ogni desiderio soddisfatto, o viceversa di essere libero da qualsiasi cosa che non piace al soggetto.
L’esposizione del crocifisso rispetta la libertà di educazione e dunque non lede i diritti umani. Ma i ricorrenti avevano invocato anche l’articolo 9 della Convenzione, quello relativo alla libertà di religione.
La corte ha interpretato l’articolo 2 del Protocollo come legge speciale (lex specialis) rispetto all’articolo 9 della Convenzione. Semplificando, è come se avesse detto: l’articolo 9 è più generale, rispetto alla sfera che riguarda la scuola e l’istruzione c’è una norma più specifica, in questo caso si applica la norma più specifica anche se è un po’ «diversa» dall’articolo 9. Dal mio punto di vista ha fatto tutto in modo corretto, applicando la disposizione che riguarda l’istruzione in modo da tutelare anche la libertà del popolo italiano di avere simboli religiosi, come previsto dal suo ordinamento.
Cosa pensa del «margine di apprezzamento» che la Corte europea ha riconosciuto allo Stato italiano?
È una dottrina che difendo da sempre e che cerco di giustificare in linea di principio come uno dei principi più importanti di tutto l’assetto giuridico europeo. Mi ha fatto molto piacere vederla applicata, soprattutto perché negli ultimi anni vi si è fatto sempre meno ricorso. Di per sé non è sufficiente a garantire un risultato corretto, e quindi non vorrei mettere troppa enfasi sul margine di apprezzamento a motivo proprio della sua discrezionalità nell’ambito della Corte europea. Il margine è stato invocato per proteggere un pluralismo importante in Europa, e questo è molto positivo; ma può mutare con il tempo, essere applicato in modo diverso. Non risolve definitivamente il problema.
Esiste una convergenza tra i principi che trovano applicazione in questa sentenza della Corte europea con quelli che ispirano le decisioni della Corte suprema degli Stati Uniti?
Per rispondere occorre fare un passo indietro. La giurisprudenza costituzionale americana ha visto epoche molto diverse in tema di libertà di religione. Dagli anni Quaranta in poi, per intenderci, la Corte ha interpretato questa libertà sempre più come libertà dalla religione che come libertà per la religione. D’altra parte negli ultimi vent’anni la Corte suprema ha fatto non un vero e proprio dietrofront, ma dei passi importanti per cercare di rendere quella giurisprudenza meno aggressiva e più rispettosa del pluralismo e della libertà. Alla luce dell’ultima sentenza della Grande Camera, è come se la Corte di Strasburgo avesse detto: la strada dell’ostilità alla religione (che la Corte statunitense cerca adesso di moderare) non è la strada che intendiamo seguire. Questa è la mia impressione.
La convergenza starebbe dunque nel rifuggire da un’interpretazione troppo unilaterale della libertà negativa.
Sì. La lezione degli Usa all’Europa è quella di evitare una certa tendenza a vedere la libertà di religione come un semplice fatto di coscienza privata e nient’altro. Tale libertà ha invece degli aspetti istituzionali e comunitari che sono inscindibili e che non si possono separare, se non al prezzo di svuotare la stessa libertà religiosa privandola del suo significato e sostituendola con il laicismo di Stato.
Le sembra salva la vocazione pluralistica dell’Europa?
«Vocazione pluralistica» è un’espressione così giusta che più che alla realtà, esprime un compito. Se riflettiamo sui grandi principi dei diritti umani, dell’etica pubblica e della dignità umana, la capacità di cercare e trovare un compromesso rispettoso del pluralismo e dei grandi principi universali, è forse il più grande dono dell’Europa al mondo. In altri termini, dire che c’è una dignità umana universale e che l’uomo va rispettato in ogni contesto e in ogni cultura, non implica un’uniformità assoluta nemmeno nell’applicazione in concreto di questi grandi principi morali. Se l’Europa, per la sua cultura, non è in grado di bilanciare queste due tendenze, non lo può fare nessun altro.
Un simbolo a valenza identitaria come il crocifisso, con quale giustificazione potrà in futuro essere collocato nello spazio pubblico se quel valore smetterà di essere identitario?
Innanzitutto non possiamo prescindere dall’importanza della storia. Ogni popolo è sempre legato alla sua storia e non solo alla sua attualità. Come ha detto nella sua opinione separata il giudice maltese Giovanni Bonello – forse la più bella che io abbia letto di un giudice di Strasburgo – la convenzione europea non ci obbliga ad un «Alzheimer storico», collettivo. Gli aspetti di una cultura non si possono astrattamente separare dalla storia di un popolo. Non solo. C’è anche un’altra cosa da considerare, ed è che sempre, il diritto, prima o poi, segue l’esperienza.
Cosa intende dire?
Glielo spiego con un aneddoto. La mia professoressa Mary Ann Glendon racconta spesso un fatto che le capitò negli anni 70, quando insegnava alla Law School del Boston College (un’istituzione gesuita, ndr). Un giorno alcuni docenti non cattolici tolsero tutti i crocifissi dalle aule. Lei dice che la cosa più interessante non era quest’ostilità, ma il fatto che nessuno ebbe obiezioni o disse nulla. Suo marito, che è ebreo, le diceva: «ma perché nessuno di voi cattolici lo difende? Se fossimo in una università ebraica e si fosse trattato della stella di David, tutti avremmo protestato…». Allora questo è il problema: anche se la sentenza della Corte è una vittoria giuridica, è solo la millesima parte del lavoro culturale che si deve fare per “difendere” il crocifisso.