Nel mese di aprile di venti anni fa succedevano due cose molto diverse tra loro, ma che ci portano a riflettere sul tema della vita e della morte, dei vincitori e dei perdenti. In Ruanda, un genocidio “programmato” da una delle tre etnie presenti nel Paese, gli Hutu, a danno di un’altra, i Tutsi, portò a quasi 800 mila vittime che comprendevano anche membri dei TWA (l’alta etnia), e degli Hutu che si opponevano allo sterminio. Un numero impressionante sia per la consistenza che per l’efferatezza con la quale venne raggiunto. A colpi di arma da fuoco, ma soprattutto avvalendosi dei micidiali coltelli machete. Una mattanza che non risparmiava donne, bambini, anziani. Un’orgia di odio senza fine. E’ stato uno dei massacri più veloci e sanguinosi della storia. In circa cento giorni fu portata a termine una carneficina di dimensioni impressionanti con la connivenza di circa 200 mila persone. A distanza di anni Richard Dowden, direttore della Royal African Society che in quei giorni era in Africa, testimone di quanto stava accadendo, ha scritto su The Indipendent: “Internamente il Ruanda è una delle società sottoposte a più stretto controllo in Africa, dove i diritti umani e la libertà di parola sono fortemente limitati. Non c’é libertà di stampa, così che è impossibile giudicare oggi se gli abitanti del Ruanda stiano cominciando a dimenticare di essere Hutu o Tutsi…Dopo 20 anni, potrebbe essere venuto il tempo per un governo meno punitivo e di controllo e per una società più aperta che possa consentire una vera, e non imposta, riconciliazione”.
Nello stesso mese a Seattle, negli Stati Uniti, si toglieva la vita in circostanze ancora oggi discusse e misteriose Kurt Cobain, frontman dei Nirvana e portavoce ufficiale di quella Generazione X che trovava voce e identificazione nei suoi testi e nelle sue canzoni. La rockstar incarnava il tema del fallimento, così radicato nella cultura americana. “Cobain – scrive Ludovic Hunter-Tilney sul Financial Times – non fu mai a suo agio con il suo successo. Emerse durante l’età dell’oro del fallimento, un tempo in cui una fascia dei giovani americani abbracciò l’anti patriottico vizio dell’indolenza e dell’assenza di motivazione. Ai tempi della sua scomparsa nell’aprile del 1994, il termine “slacker” (fannullone, ndr) che era diventato popolare durante la prima Guerra Mondiale per descrivere chi si sottraeva al servizio militare (…), era diventato esemplificativo per gli sfaccendati della Generazione X, che cercavano di fuggire il giorno in cui cominciare una vita aziendale”. In una famosa intervista del 1991, Cobain ricordava, infatti, che la sua ambizione era quella di vendere un numero sufficiente di dischi per essere in grado di mangiare pasta e formaggio senza bisogno di lavorare. E due mesi prima di togliersi la vita, nella canzone “You know you are right” (di cui esistono almeno tre differenti versioni) cantava:
Mai ti disturberò
Mai farò promesse
Mai ti seguirò
Mai ti disturberò
Mai dirò una parola di nuovo
Striscerò via per bene
Andrò via da qui
Non avrai timore della paura
Nessun pensiero era rivolto a questo
Ho sempre saputo che saremo arrivati a questo
Le cose non sono mai state così intense
Non ho mai sbagliato a fallire
Cosa accomuna le due ricorrenze ancora oggi? L’ultimo verso della canzone. Mi sembra di poter dire, infatti, che è proprio il senso del fallimento. In un caso (Hutu e Tutsi), il fallimento nel riconoscere gli altri e i loro diritti inalienabili. Il fallimento della volontà di trovare un modo di convivere gli uni accanto agli altri senza essere prevaricati, ma neppure senza perpetrare un crimine di massa per imporsi. Nell’altro (Kurt Cobain), il fallimento nell’affrontare la vita, le responsabilità verso se stessi e verso gli altri, la moglie e la figlia in primis. Ma accanto a questo c’è un altro elemento. Quello della debolezza e della fragilità dell’uomo. Che va riconosciuta. Va affrontata. Va considerata. Va superata come parte del processo di crescita che ognuno di noi deve vivere come individuo e come parte fondamentale della famiglia e della società. Per superare il disorientamento che storie come queste, a distanza di vent’anni, ancora suscitano in noi, dobbiamo aprirci agli altri e a noi stessi, credendo nella nostra libertà e in quella degli altri e nel valore supremo della vita. “Il sonno della ragione genera mostri”, scriveva Francisco Goya in un’acquaforte del 1797. E allora vigiliamo, partendo da noi stessi. Per essere vincenti. O almeno per provarci.