Ieri otto ragazzi e tre ragazze della comunità terapeutica educativa “L’Imprevisto” di Pesaro hanno terminato il loro cammino in comunità. Per loro è stata organizzata una festa nel teatro principale della città, con amici, autorità, vecchi ospiti e genitori e con la partecipazione di Paolo Cevoli. Pubblichiamo l’intervento di Silvio Cattarina, fondatore de L’Imprevisto e responsabile del programma.
Non colpisce anche a voi, non vi scandalizza il dolore che c’è sulla faccia della terra, in particolare quello che si manifesta nel mondo giovanile? Questo sconfinato dolore ingiusto, spesso innocente? Non turba il vostro cuore l’incomprensibile, insopportabile dolore dell’animo umano?
Quanti giovani decimati dalla ferocia dell’insignificanza, dell’insensatezza, della distrazione; congelati dal freddo vento del successo, della prestazione, del denaro; sferzati ed abbattuti, percossi e denudati dalla bufera dell’immediato, dell’istinto, dell’effimero. E’ una guerra, una nuova guerra.
Eppure sono giovani belli, intelligenti, alti, fieri, avidi, curiosi, audaci. Ma fragili e spesso tragici ramoscelli scomposti sulle macerie scombinate e insanguinate del nostro vivere civile, delle nostre città.
Sì, la parte più colpita sono i giovani, i ragazzi, i piccoli. La rovina più forte, acuta, è misteriosamente riservata ai giovani. Questa guerra, questa emergenza educativa, questa fragilità psicologica, massmediatica, esistenziale, abbattutasi particolarmente sugli inermi, sui fragili, sugli indifesi, su — come dico spesso – questo immenso campo di profughi che è la gioventù del nostro paese — profughi, uomini in fuga, che scappano, alla ricerca della salvezza —, abbattutasi sulle famiglie distruggendole sempre più, l’orfanezza, figli senza padri e senza madri pur avendo i genitori presenti, ragazzi sconfitti.
Come se i giovani fossero destinati, chiamati a portare la sofferenza, a portarla per tutti, ad offrire un sacrificio per tanti.
Non possiamo far cadere nel nulla il mare di dolore in cui si dibatte il giovane dei nostri giorni. Non può essere che quanto di lancinante e grave vive nel suo cuore non serva, non sia utile a niente e a nessuno. Perduto, perduto per sempre – in eterno. Trascureremo, perderemo questo inestimabile tesoro?
Non la politica, la finanza, la diplomazia, l’economia, le case, le industrie… il cuore dell’uomo conta, la sua anima! Contano le infinite domande di senso che urlano dentro il cuore dei ragazzi, lo sconfinato bisogno di vita che sempre più esplode nel loro petto.
Come affronteremo la pena di tanto dolore, la sofferenza degli innocenti — un tempo, quand’ero piccolo, ricordo che le donne anziane facevano pregare, specialmente sul calar della sera, “per la sofferenza degli innocenti”; che timore e che tremore, anzi che paura, da bambino! — come saremo in grado di consolare il dolore di ogni uomo umiliato?
Non certamente con discorsi, con trattati e lezioni, con risposte astratte, con rassicuranti teorie o tecniche. Oggi, non solo da oggi, dei poveri, sui poveri, riguardo ai poveri e alla povertà, parlano in tanti, ma pochi stanno con i poveri, parlano con i poveri, vivono con i poveri. Se c’è una cosa che abbiamo capito stando così tanti anni con i nostri ragazzi è che essi non vogliono essere i destinatari del nostro servizio, i beneficiari del nostro agire… vogliono essere figli, amici, fratelli… non un numero, una cifra, un problema, ma una persona unica, con una storia unica, eccezionale, irripetibile, bella comunque… che il proprio dolore a qualcuno e a qualcosa si può consegnare, affidare, donare. I poveri, i bisognosi, cioè i ragazzi, ci devono disturbare, conturbare, sovvertire, scombussolare, insurrezionare…
Teniamo aperta questa drammatica domanda, affidiamola al misterioso silenzio del nostro stare insieme, all’arcano gioco di sguardi della nostra convivialità.
Occorre l’accoglienza… Occorre la misericordia. Sennò i giovani continuano a pensare che “ha ragione il più forte”. Su questa logica infatti impostano la loro vita. Pensano che la vita sia questione di potere, di riuscita. No, occorre la comunità, ci vuole una comunità.
La risposta al mistero della sofferenza non è una spiegazione ma una presenza. “La risposta soffia nel vento” direbbe Bob Dylan.
Il dolore non bisogna tenerlo per sé. Occorre farne dono agli altri, a tutti, allora diventa fecondo. La vita è fatta per essere donata, non per essere trattenuta.
La sofferenza, illuminata dall’accoglienza, dall’amore fraterno, dalla condivisione, cambia la sorte della persona, cambia la storia personale e cambia la sorte sociale, delle comunità e dei popoli.
Il dolore è via privilegiata dell’esperienza dell’amore. Il dolore è sicuramente riscattabile.
Esserci, essere presenti, interessarsi al dolore che c’è nel mondo, soprattutto verso quello dei giovani. Dire, far sentire che ci teniamo, che ci preoccupiamo. Che abbiamo rispetto dei giovani, attenzione, venerazione. Verso i giovani che soffrono portiamo onore e servizio.
Tu sei, tu sei importante per me, tu vali, tu conti. Tu hai un grande compito, una responsabilità. Il giovane è importante che senta che la sua vita è preziosa per gli altri, per chi gli sta vicino, che è necessario, importante per gli altri.
Dobbiamo dare molto, dobbiamo dare tutto. Non voglio essere tormentato dal dubbio se ho dato tutto od ho trattenuto qualcosa per me. La vita si guadagna quando la si consegna.
Nel mio cuore io desidero che sia annotato tutto, il nome di ogni ragazzo, ogni sua parola, ogni piega del suo dolore, il suo papà, la sua mamma, i suoi fratelli… Concediamoci e permettiamoci di avere compassione.
Nel mio cuore, il mio cuore desidero che sia un presepe, un presepe vivente, continuo, quotidiano.
Le comunità sono come dei presepi, sono dei presepi — dei presepi che vivono tutto l’anno; c’è tutto, Maria, Giuseppe, l’asino, il bue, i pastori, i Re Magi, il piccolo e il grande, il povero e il ricco… “Per loro non c’era posto nell’albergo”. Nell’albergo del mio cuore non c’è posto per i ragazzi? Il cuore dell’altro si muove solo se è accolto, abbracciato, amato. Il cuore, questo punto infuocato, ardente, tribolato e bellissimo nella sua drammaticità.
Voglio dire, insomma, che noi siamo pieni di felicità per questo impegno con i ragazzi, per il lavoro che siamo chiamati a svolgere con loro… Siamo nutriti, dissetati, giorno dopo giorno, dalla convivenza con i ragazzi delle nostre comunità, siamo lieti. Abbiamo visto che se diamo amore ci ritorna indietro ancora più grande e ricco, bello e sovrabbondante, pieno di vita, di luce.