E’ ritornato, come un boia notturno, a rubare quella percentuale di vita che dice d’appartenergli. Ha sferrato l’attacco nell’ora massima dell’intimità in cui i corpi s’abbracciano e anche i sonnambuli mollano la presa. Dieci secondi è l’inezia che gli è bastata per lasciare nell’aria una litania di requiem aeternam: Amatrice, Accumoli, Pescara del Tronto, Arquata, Ascoli. Dopo un terremoto, nessuna storia è più stata la medesima: “Una volta che sei stato dentro ad un terremoto, anche se sopravvivi senza un graffio, sai che esso, come un colpo al cuore, rimane in seno alla terra, nella sua orribile potenzialità, sempre pronto a tornare e colpire di nuovo, con una forza ancor più devastante” (S. Rushdie).
Per chi guarda la storia dall’alto, la prospettiva è orrenda, un raddoppio di rovina: il paese è un immane cimitero d’arte, di memoria, d’affetti, d’immagini, di costumi. Di corpi malmenati: a terremoto avvenuto, si scopre sempre qualche geologo che l’aveva previsto. Per chi, invece, la guarda dal basso, l’angolazione muta quasi d’aspetto: è come se, cadendo il mondo, una risposta di salvezza si fosse liberata, librata in volo. Don Giovanni d’Ercole è il vescovo-dei-terremotati. Mandato a L’Aquila all’indomani del tragico terremoto del 2009 — “La Chiesa, don Giovanni, ti manda in quella terra martoriata per organizzare la speranza” furono le parole dell’omelia nel giorno della sua ordinazione episcopale — si ritrova oggi vescovo nella terra d’Ascoli, torturata dalla stessa furia naturale. Un vescovo del casato di don Luigi Orione, pure lui mandato nella città di Messina all’indomani del terremoto del 1908. Il santo, tanto caro allo scrittore Silone, che s’inventò la “spiritualità dello straccio”: uno straccio lo prendi per togliere la polvere, poi lo ributti nel cassetto, senza manifestargli il minimo grazie. Quando servirà di nuovo, lo straccio non farà storie: tornerà a farsi usare e mai vanterà pretesa alcuna: “Davanti a me è Messina. Ogni volta che la guardo non posso impedirmi di pensare a quel terribile terremoto che la ingoiò nel 1908. Ora la città è nuovamente tutta in piedi è brilla al sole” (L. Rèpaci).
Il vescovo Giovanni è lo straccio di Dio nella terra ascolana: i telegiornali l’han ritratto con la camicia impolverata, lo sguardo di un padre-turbato, il piglio dell’uomo che a Dio non risparmia alcun perché. Con in mano la pala e sulla testa la mitria — strumenti primordiali del potere che si tramuta in servizio — s’è ficcato dentro la morte del suo popolo per tentare d’intravedere la strada della salvezza. Per organizzare la speranza in piena notte: “Ho visto il buio e sentito le grida della gente — dice don Giovanni raccontando cosa gli si è apparso al suo arrivo a Pescara del Tronto —. Poi scosse di terremoto. Solo con le luci dell’alba ho potuto rendermi conto che il paese era stato raso al suolo. Un bombardamento ha distrutto completamente il paese”.
Nell’animo porta ancora lo smacco di un’inchiesta nata ai bordi del sisma in terra aquilana: sarebbe stato semplice, oltreché prudente a detta di tanti, restarsene ai margini, incoraggiare dal bordo-campo dell’episcopio, bisbigliare una misericordia-della-storia. Ma per chi, in materia di sequela, è nato straccio, sarà sempre la polvere il suo salotto prediletto. Per sporcarsi di essa, per tentarne la cancellazione, per rinfocolare le braci rimaste accese sotto: un grido, una mano tesa, un soffio che ancor spira. Dall’alto la Croce è uno spettacolo: pievi cadute, ammassi di pietre, speranza fulminata. Dal basso la Croce è una segnaletica: una voce soffusa, una traccia d’affetti, una carne snervata. Dall’alto nasce il racconto, dal basso s’accende una ripartenza che, dall’alto, pare inaudita: “Tra le tende, dopo il terremoto, i bambini giocano a palla avvelenata, al mondo, ai quattro cantoni, a guardie e ladri, la vita rimbalza elastica, non vuole altro che vivere” (G. Rodari).
Ad Amatrice è crollato tutto. Solo una statua della Madonna ha retto l’urto, rimanendo in piedi: “Guardare al cielo, pregare, e poi avanti con coraggio e lavorare. Ave Maria e avanti” spronava don Orione, santo-terremotato. La sismologia non sa dire il quando di un sisma, ipotizza il dove. La fede non azzarda né il quando né il dove, rimane profezia del come. Di come-ripartire: “Sono andato e sono stato con la gente”. Per tentare d’allacciare il suo popolo all’azzardo che fu dei vecchi-profeti: il terremoto come un’aratura, per preparare il terreno ad una nuova seminagione, che si vuole diventi la migliore possibile.
Detto rigorosamente con la polvere sulla camicia che, da quelle parti, è l’odore di un gregge silurato da un’imboscata notturna. Le medesime parole, dette dall’alto dell’elicottero, null’altro sarebbero che un’iradiddìo di bestemmie.