Un uomo sta morendo, si chiama Rooie Marck, ha cinquant’anni ed una speciale passione, la squadra olandese di calcio del Feyenoord. Siamo a Rotterdam, in una provincia dei Paesi Bassi, l’Olanda Meridionale. Il suo ultimo desiderio, prima di consegnarsi al soffio gelido della morte, era tornare allo stadio, per vivere la compagnia del suo affetto più grande, il Feyenoord. San Tommaso d’Aquino, nella sua spericolata genialità, ha tratteggiato l’arazzo della vita umana, così: “La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente la sostiene, nel quale trova la maggiore soddisfazione”. Il massimo del realismo dell’amore e nell’amore. Soddisfazione è satis-factio, lasciare dunque che sia ultimamente la vita a regalare ciò che davvero sazia e, tentativamente, a tentoni, bramare e ritornare a questo punto ordinatore, ma privo di tensione coartante. E’ un grido e un bisogno, insieme; questi due fattori, ma anche pulsioni, sradicano l’uomo dalla stanchezza quotidiana e, anche in fin di vita, consentono a Mark di posare con vigore inusitato la mano destra sul cuore, con orgoglio, di fronte a quella curva dello stadio, da sempre il luogo del più grande affetto.
Mark entra sul terreno di gioco su una barella, circondato dall’affetto dei suoi amici più cari, fa un mezzo giro di campo, non ce la fa, ma riesce a stare di fronte alla curva, a quei volti che lo hanno seguito, accompagnato, cercato, chissà quante volte. Una compagnia che guarda ad un comune destino. Non perché c’entri qualcosa la fede, non si tratta di catalogare o etichettare l’esperienza umana nella sua vivida irregolarità: c’entra quel bisogno di infinito che uno si porta appresso fin dalla nascita. Lo cerca, lo brama, vuole addentarlo, non ce la fa, cade, si rialza, riprende stentatamente, si inorgoglisce – chi sei tu, Dio, per dettare le regole? -, ma alla fine, se è leale col proprio cuore, un uomo si abbandona ad un’ultima purità leggera e frangente, non più imbarazzato delle proprie lacrime. Le lacrime di Mark, che sgorgano come da un fiume bambino, dolce e selvaggio; le mie lacrime, mentre guardavo il video che ha fatto il giro del mondo e dunque rischiamo l’ennesimo cortocircuito della censura della bellezza, a cagione di tanta “viralità”; ma tant’è, la scena della vita di Mark si è come rappresa e distesa, in un mondo come quello del calcio, schifoso ma così tanto umano e incanaglito, da possedere, per grazia, quei germi di riscatto, che a nessun uomo – nessuno – devono essere mai negati.
“Morte, dov’è la tua vittoria?” – Si domanda San Paolo. Dov’è, qual è il punto che spacca tutto, l’ostacolo insormontabile? Non c’è. Non esiste luogo della vita in mano alla morte, quando la libertà si scatena, abbarbicata all’affetto che sostiene proprio quella vita in bilico. Morte, tu non vincerai.
E’ lo stesso grido che sgorga dal cuore di un uomo di fronte alla donna amata: Tu non morirai. E infatti lei non morirà, perché là dov’è l’Amore, la morte è straniera. A-mors: non c’è morte.
Mark non ha lasciato quello stadio e noi non lasceremo quell’affetto che principalmente ci sostiene, nella vita, perché tutto è dato, nostro e liberato.
C’ero anch’io, con Mark, in quello stadio. Non fa velo la commozione umana – e un uomo che non piange è un uomo cattivo -, anzi, è proprio quel sussulto che mi riprende e mi fa rialzare lo sguardo, non saziato da questo mondo, non arreso di fronte agli scenari già visti e trascritti nella memoria.
C’è sempre una voce, ed è povera e piccola, a sostenere quanto non è umanamente sostenibile. Così, in quel frammento perfino ostentato, c’è davvero tutto. A me basta così, per domandare tutto a Chi tutto può. Anche per Mark, parte di me, parte di noi.