«Solo il cuore può essere il “propellente” di una legge giusta. A patto che lo si distingua dalla mera razionalità degli interessi». «I cattolici? Facciano valere non solo argomenti espressivi del loro credo, ma persuasivi per tutti. Questi argomenti esistono». Oggi sarà al Meeting di Rimini Giuliano Amato, che parlerà sul tema “Presenza religiosa nello spazio pubblico”. Ne ha parlato con il sussidiario, cominciando dal caso controverso che sta facendo discutere gli Usa: la proposta di Obama di concedere lo spazio per una mosche a Ground Zero, suscitando le aspre reazioni degli americani, anche suoi elettori.
Professore, dobbiamo privilegiare i principi astratti o il sentire della maggioranza?
Se vogliamo capire la democrazia in senso realmente moderno dobbiamo intenderla non come semplice prevalenza di “principi maggioritari”: essa è piuttosto fondata su quelle che io chiamo ragioni di civiltà. Esse coincidono con la capacità – e il Meeting ne offre un valido esempio – di riconoscere l’altro, di riconoscere diritti e libertà a tutti gli esseri umani in quanto persone, a prescindere del loro status temporale.
Si spieghi, professore.
Mi riferisco a diritti e libertà figli della libertà umana e non dello status di cittadino. È indiscutibilmente vero che ci sono diritti che possono avere come fondamento soltanto la cittadinanza: per esempio il diritto ad essere eletti in un parlamento. Tuttavia c’è qualcosa che segna in modo irreversibile la modernità, e cioè il riconoscimento della persona e della sua dignità con l’«involucro» dei suoi diritti. Sorge allora la questione: cosa garantisce effettivamente in una democrazia funzionante il riconoscimento e il rispetto di questi diritti, quando vi siano orientamenti di maggioranza ad essi contrari? È difficile negare il diritto alla presenza di un crocifisso se essa è legata ad orientamenti profondi di una maggioranza cristiana. A volte purtroppo sono le idiosincrasie, le paure, la voglia di non confrontarsi, i fattori che finiscono per dominare in una maggioranza.
A garantire il riconoscimento di quei diritti possono essere le corti, istituzioni di garanzia non elettive?
Le corti hanno un ruolo di equilibrio proprio perché non dipendono dal voto della maggioranza e dal suo consenso. Se questi diritti sono previsti dalla legge, dalla costituzioni o dai trattati internazionali, bisogna mettere in conto che una corte li faccia valere.
E se il diritto di uno stato sovrano contrasta con il diritto convenzionale, come nel caso della Corte europea dei diritti?
Dipende. È una dialettica fa riferimento anche a corti dello stesso stato, come è accaduto in Spagna sui diritti degli immigrati illegali. Ma se una corte esprime un contesto più ampio di uno stato sovrano ma di cui quello stato sovrano fa parte, esso non può non essere partecipe degli interventi della corte. La Corte europea è espressiva di un contesto che ha dei principi comuni, ma anche delle forti diversità interne e ci possono essere stati in cui queste diversità hanno una loro forza. Il caso Lautsi lo dimostra.
In un caso come questo può legittimamente valere il nostro orientamento su quello della corte?
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Direi di sì. Non dobbiamo comunque giudicare quella corte in modo troppo unilaterale: in più occasioni, prima di questa sentenza, aveva ritenuto doveroso da parte sua un bilanciamento fra le ragioni del diritto individuale e orientamenti della maggioranza. così è stato nel caso Preminger, in Austria, quando la corte ritenne che non fosse illegittimo il sequestro di un film che offendeva i sentimenti cristiani della maggioranza degli austriaci. Questa sentenza viene utilizzata oggi dallo stato italiano per mettere in dubbio il fondamento sulla sentenza del crocifisso.
In Francia la maggioranza ha detto no ad una minoranza vietando il velo integrale nei luoghi pubblici. La laicità negativa francese aveva ispirato l’Europa, ma Sarkozy sembra pensarla diversamente.
Sul singolo caso, non ho difficoltà a esprimere la mia stessa contrarietà al velo integrale: mi sembra un modo di precludere il rapporto umano tra la persona che sta dietro il velo e tutte le altre, anche se è stato presentato come un provvedimento di ordine pubblico. Penso che sia un’opinione condivisa da molte donne di musulmane, perché quando venne scritta la Carta dei valori di cui si occupò Carlo Cardia quando io ero ministro dell’Interno (nel 2007, ndr) il punto della Carta contro il velo integrale fu scritto non da Cardia ma da donne musulmane. Questo lo accetto, ma non potrei accettare che il velo come tale venisse vietato.
E sul concetto di laicità «alla francese», come spazio pubblico neutro, professore?
Sulla laicità francese, cioè sulla definizione di una sfera pubblica asettica nei confronti dei simboli e delle manifestazioni religiose, ho sempre nutrito molti dubbi. Essa infatti esprime una nozione di separatezza nella sfera dei valori che è il frutto perverso di un’altra cosa con la quale ha finito per confondersi, e che è la separatezza della giurisdizione dello stato rispetto a quella di un potere religioso come quello della Chiesa.
Come spiega questa confusione ingannevole?
Viene dalla disputa storica che i due poteri europei hanno alle spalle. Essa ha generato una separazione tra sfera degli affari civili e sfera religiosa che si è trasmessa alla sfera individuale e implica in sé che un credente si presenti nella sfera pubblica spoglio delle sue principali convinzioni e orientamenti. A mio avviso è una separazione del tutto dissennata, perché potrà valere tra le sfere istituzionali ma non può riguardare i convincimenti, i valori e le visioni della vita. Se sono credente, perché dovrei lasciare la mia fede fuori dalla porta quando si parla di politica?
Ma sono le maggioranze che fanno le leggi…
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Non c’è dubbio. Com’è stato scritto non da laici, ma da persone come l’attuale Pontefice, vale per i credenti di qualunque religione la necessità di far valere i loro convincimenti con argomenti non soltanto espressivi di un credo a cui sono vincolati, ma persuasivi anche per gli altri. E questi argomenti esistono.
Secondo il titolo del Meeting la natura del nostro cuore è il desiderio di infinito. Esiste un nesso tra natura, desiderio del cuore e legge?
Dovrebbe esistere, ed è il dilemma di Böckenförde. È possibile superarlo se si accetta che c’è un fondamento pre-giuridico che fa da motore di ciò che poi, attraverso la legge, viene indicato come giusto e ingiusto, come fine da perseguire o fine da evitare. Senza questo «propellente» la legge tende a essere piccola, priva della sua capacità di insegnare la grandezza.
Quel «propellente» può essere il cuore?
Se lo usiamo contrapponendolo alla mera razionalità dell’incontro tra gli interessi, allora la mia risposta è sì.
Che nozione di ragione sta alla base di una società plurale?
Quella, se mi permette di citare Ratzinger, per cui «l’interculturalità è una dimensione necessaria della discussione sulle questioni fondamentali dell’essenza dell’essere umano». Interculturalità che non può essere sviluppata né tutta all’interno del cristianesimo, né puramente all’interno della tradizione razionalista occidentale.
A proposito di bene comune, il paese si dibatte in una crisi tra politica e giurisdizione che non concede tregua. Cosa manca?
Manca quell’araba fenice della quale parla quasi settimanalmente il Capo dello stato: un sentire comune, che si trova a dover soccombere in presenza dei soliti conflitti. Abbiamo perso il senso comune della nazione. la nazione, come diceva Renan, è nutrita da quel sentimento di solidarietà che scaturisce dai sacrifici che abbiamo compiuto insieme, e da quelli che insieme siamo disposti ad affrontare per il futuro comune. È esattamente quello che ci è venuto a mancare.
In un’intervista alla Stampa, Vittadini ha detto che la politica oggi è solo leadership carismatica e che non è credibile una politica fatta per cooptazione…
È una parte del problema. Quello delle cooptazioni è un nodo tradizionale della politica nei regimi oligarchici. Certo, c’è differenza tra le cooptazioni fatte da organizzazioni comunque illuminate, e le cooptazioni fatte in funzione di una lealtà cieca a chi comanda.
(Federico Ferraù)