La notizia come l’abbiamo intercettata sui siti e ritrovata senza molta enfasi sui giornali di oggi è questa: un gruppo di attivisti di Blockupy hanno manifestato a Roma contro la riforma del Lavoro del ministro Fornero. Volevano arrivare a Montecitorio, ci sono stati scontri con la polizia e qualche agente ha pagato con ferite, seppur leggere. Alla fine, in ordine sparso, alcuni manifestanti hanno raggiunto l’obiettivo, limitandosi a un gesto simbolico: hanno preso a pallonate il Palazzo, con palloni che riportavano la scritta “no riforma”. Non voglio qui discutere le ragioni degli attivisti, né dei modi con cui le portano avanti; non so quanto ci sia farina del loro sacco e quanto invece ci sia una regia che li usa strumentalmente. Mi ha colpito invece un particolare che dai tempi in cui questo movimento è nato nelle grandi capitali occidentali è diventato abituale. Non so se ci avete fatto caso, ma a partire dalla occupazione a Zuccotti Park, davanti a Wall Street, la consuetudine dei manifestanti è quella di accamparsi notte e giorno. Anche a Roma la cosa si è ripetuta, e gli attivisti hanno portato le loro tende sotto il maestoso portico del Pantheon. Così quelle piccole tende da campeggio posizionate nel cuore delle metropoli (ne ho viste centinaia piazzate attorno alla capitale di Saint Paul a Londra quest’inverno), sono diventate un po’ un simbolo non solo di rabbia o espressione di un malessere. A volte i particolari sono rivelatori di altro rispetto alle loro ragion d’essere specifiche. In questo caso le tende indicano esplicitamente un’ambizione a occupare quegli spazi che il potere politico e in particolare quello finanziario hanno “occupato” con gli esiti disastrosi che noi tutti stiamo vivendo sulla nostra pelle. Un’ambizione evidentemente velleitaria, perché come quasi tutti i movimenti di contestazione nelle nostre società sono fragilissimi nelle loro ragioni e si reggono su uno spontaneismo destinato a spegnersi con il passare del tempo.
Eppure quelle tende piazzate nel cuore delle città innescano tanti pensieri, che non sono affatto banali. Quelle tende ci ricordano, ad esempio, che la grande crisi che stiamo vivendo si è innescata a partire da un bisogno elementare degli uomini: quello di avere una casa. È su questo bisogno che si è innescata la grande bolla immobiliare americana che ha aperto la voragine in cui quattro anni dopo ancora ci troviamo ad annaspare.
Ma colpisce che una grande civiltà evoluta sia inciampata non su grandi obiettivi troppo ambiziosi, ma su un problema di ordinaria amministrazione, che nel dopoguerra le nostre città si erano trovate ad affrontare e risolvere (seppur con esiti che ancor oggi fanno discutere: ma tutti hanno avuto un tetto). La tenda è anche il simbolo di una generazione che si trova a vivere in spazi più ristretti e con meno risorse (e quindi meno prospettive per sé) rispetto alle generazioni che le hanno precedute: è anche questo è un fenomeno che per la prima volta, nella modernità, l’uomo si trova a vivere. Non voglio sovraccaricare di significati un fenomeno di protesta che tutto sommato continua ad avere dimensioni marginali e caratteristiche episodiche. Ma quelle tende mi balzano all’occhio come un monito di una condizione di fragilità che ci riguarda tutti da vicino, di un’incertezza che tocca persin il fatto di avere un tetto sopra la nostra testa. Il modello di sviluppo in cui ci siamo cullati, come si trattasse di percorso lineare verso un progresso infinito, si è drammaticamente inceppato. Meglio pensarci, esserne più consapevoli e non farsi troppe illusioni: quelle tende, in fondo, sono lì a ricordarcelo.