Alberto Stasi condannato a sedici anni, si costituisce ed è già in carcere. A Bollate. Non esulto quando uno finisce in galera, sentir parlare di soddisfazione mi fa rabbrividire. “Non si può gioire per una condanna”, hanno detto anche i genitori di Chiara Poggi, massacrata a casa sua otto anni fa, e i giornalisti dovrebbero stare attenti a chiosare “con sollievo, emozionati”.
Tra emozione e soddisfazione c’è solo la rima, in comune. Quella è brava gente, sconvolta, straziata da un dolore irredimibile dalla giustizia umana. Non chiedeva vendetta, ma solo la verità, ed essere finalmente lasciati in pace, lontano dai riflettori, lontano dall’accanimento di dibattiti e polemiche. Ma non si può gioire anche per il modo in cui è arrivata questa condanna.
Otto anni sono troppi, se ti hanno ucciso una figlia, se sai che l’assassino se ne va in giro a piede libero. E otto anni così, poi: con due assoluzioni, in primo grado e in appello. Una inchiesta in Cassazione per rivedere il processo, la pena inflitta all’imputato, il ricorso in Cassazione che ieri, dopo ore di camera di consiglio, ha confermato la condanna. Dopo ore di camera di consiglio e improvvide dichiarazioni del procuratore generale che ancora due giorni fa sottolineava la debolezza dell’impianto accusatorio, e il fatto che la sentenza fosse stata fatta male.
Come si fa a condannare un uomo con il dubbio che una sentenza sia da annullare? O il procuratore è un incompetente, o distratto, o ha l’animo troppo sensibile, o c’è il rischio che abbia ragione. E allora quella sentenza va rivista ancora, dato che in quattro gradi di processo si è riusciti ad avere una convincente certezza sulla verità. Intendiamoci: gli indizi sul biondino della Bocconi ci sono tutti, troppe le questioni inspiegate, le contraddizioni. Ma soprattutto è diventato un indizio il suo volto, il famoso sguardo di ghiaccio più volte immortalato, a segno lombrosiano di colpevolezza, e questo non va bene.
Quando ci si indigna sull’aspetto dell’unico imputato in assenza di prove certe siamo già in un atro campo, e la parola giustizia suona male. Di più: se Stasi è colpevole, e inoppugnabili indizi, appunto, al di là dei suoi occhi, tendono a confermarlo, perché sedici anni e non l’ergastolo? C’è del vero nelle proteste della difesa sull’irragionevolezza di questa decisione. La procura generale di Milano infatti aveva fatto ricorso a nome di un aumento della pena. Se è colpevole, non è stato abbastanza crudele squarciare la testa della sua fidanzata, che gli aveva aperto innocentemente e serenamente la porta di casa, scaraventarla giù per le scale, mentire spudoratamente e lucidamente, gettando via l’arma del delitto, le scarpe macchiate indubitabilmente del sangue della vittima, e perfino far cambiare i pedali della bicicletta con cui si era recato dalla ragazza, bicicletta notata da due testimoni e saltata fuori troppo tempo dopo una trascuratezza colpevole?
Com’è assurdo, non solo colpevole, essersi accorti che Chiara indossava un pigiama con vistose impronte di sangue sul fianco, e solo grazie a una foto emersa dal nulla anni e anni dopo il delitto, perché le macchie in questione erano state cancellate da improvvide manovre di spostamento. Pe non dire della storia delle impronte sulla suola, delle famose scarpe da ginnastica, sparite, buttate chissà dove, e mai cercate fin dall’inizio. Pare che in quelle stanze, a confondere tracce e camminare su quel sangue versato, si siano individuate le impronte di oltre trenta paia di scarpe. Si fanno così le indagini?
In realtà, noi che non siamo arruolati nei Ris, che non mastichiamo di criminologia se non dai resoconti delle cronache nere, non dovremmo osare discettare di elementi probatori e inadempienze. Dovremmo fidarci di chi lavora per la giustizia, a vari livelli. Dovremmo non essere stati condizionati da decine e decine di puntate di talk show, in cui siamo stati catapultati a parteggiare per l’una o l’altra parte in causa, tutto vedendo e tutto conoscendo, di perizie, sfoghi, pettegolezzi, ritrattazioni, e il nero che affascina dovremmo accontentarci di leggerlo nei romanzo, o di vederlo nelle fiction tv.
Ma se ci sono messinscene da prima serata e circhi da bar sui più drammatici crimini non dipende solo dall’ossessione giornalistica, che non è diversa da quando si confezionavano a mo’ di feuilletton le prima pagine della Domenica del Corriere. Il problema è che girano troppi presunti esperti, che non si negano a un salotto o un’intervista, e troppi magistrati e avvocati e membri delle forze dell’ordine non tengono abbastanza la bocca cucita, almeno finché non hanno con scruplo svolto indagini, raccolto prove, mettendole sul piatto della giustizia. Che poi questa parola mi procura sempre disagio: in nome della giustizia si condanna a morte, in nome della giustizia si inventano leggi speciali che salvano alcuni e non altri, in nome della giustizia si è faziosi, si aiutano gli amici, si istiga al suicidio, e non sono sicura che il silenzio tombale di un carcere sia in nome della giustizia. Cioè, si fa quel che si può, siamo uomini e dunque la giustizia deve avere la g minuscola, non diventare un totem da elevare alla nostra reverenza.
Dipende che giustizia è. E per essere accettabile, dev’essere mossa sempre dal principio di umiltà, fino al punto da assecondare quella dimenticata massima: se si lavora male, pasticciando, con ritardo, e non si è proprio sicuri sicuri, meglio un delinquente fuori che un innocente in galera. Anche se è terribile per le vittime e i loro familiari. Garlasco, Brembate, Avetrana, Cogne… quanti paesi sono diventati sinonimi di casi irrisolti, o risolti su prove indiziarie, con tempo inaccettabili e ribaltamenti inspiegabili?
Quanto ad Alberto Stasi, se è colpevole si è già condannato, da tempo. E il carcere potrà forse aiutarlo a riconoscere, riscaldare il suo sguardo, liberarlo dallo sforzo disumano di resistere nell’affermare il falso, negare ad oltranza l’atrocità che ha spezzato un amore, e la sua vita. Se ha fatto quel che ha fatto, verrà fuori, in una cella che non sia solo una fossa. Il perdono lo darà forse Dio, ma potrà pian piano imparare lui, a perdonarsi.