Regno Unito: una donna di 32 anni, nota con il nome di E., che soffre di una grave forma di anoressia, ha chiesto per due volte in modo ufficiale il diritto a essere lasciata morire. Ha chiesto cioè di non essere sottoposta ad alcun trattamento, come la nutrizione forzata, che la possa mantenere in vita. Chiamato a giudicare la richiesta della donna, il giudice Peter Jackson ha rigettato la richiesta con la motivazione che “la vita vale la pena di essere vissuta”. Anche se adesso per la donna la vita “è puro tormento”, il giudice ha spiegato che la donna potrebbe cambiare idea: “Quella tra la vita e la morte è la più grande differenza che conosciamo” ha aggiunto il giudice. Il caso ovviamente ha aperto in Inghilterra un dibattito tra i fautori della libertà dell’individuo contro il volere dello Stato anche in casi come la scelta di morte.
La ragazza in questione viene da una lunga esperienza dolorosa: da bambina ha subito ripetuti abusi sessuali, è stata curata per disturbi alimentari, ha abusato di alcolici. Negli ultimi anni era riuscita a iscriversi all’università, per precipitare infine nell’anoressia. Per il professor Francesco D’Agostino, contattato da IlSussidiario.net, la decisione del giudice, per quanto apprezzabile perché difende la sacralità della vita, non doveva neppure essere presa: “L’anoressia è platealmente uno stato psicopatologico” spiega D’Agostino. “Quindi non riesco a immaginare come il giudice possa ritenere la ragazza pienamente capace di intendere e volere tanto da rifiutare la sua richiesta di morire, una richiesta che un soggetto del genere non può neppure esprimere”. Per D’Agostino “il problema non è la libertà di cura, il problema è stabilire se la ragazza va considerata malata di mente o no. Nessuno può chiamare i carabinieri e far portare una anoressica in ospedale, ma non per questo una anoressica può chiedere di essere uccisa”. “Quello cui ognuno di noi ha diritto è la medicina palliativa, non l’uccisione per eutanasia per prevenire situazioni di dolore”.
Professore, come giudica la decisione del giudice sul caso di questa persona?
E’ un caso particolare, si tratta di una personalità alterata e quindi le sue condizioni psichiche non sembrano quelle di una persona pienamente competente. L’anoressia è platealmente uno stato psicopatologico, perciò non riesco a immaginare come il giudice possa ritenere la ragazza pienamente capace di intendere e volere tanto da esprimere un giudizio sul quale sono, ovviamente, del tutto d’accordo. Il problema che qui si pone non è la libertà di cura, il problema è stabilire se la ragazza va considerata malata di mente o no. Nessuno può chiamare i carabinieri e far portare una anoressica in ospedale, ma non per questo una anoressica può chiedere di essere uccisa.
Nel caso che dice lei, non potrebbe neanche chiedere di sospendere le cure?
Il presupposto di ogni scelta che abbia valore giuridico e non solo in campo etico ma anche in campo civile o penale è la capacità della persona di intendere e di volere. Anche per un tradizionale testamento bisogna che il testatore sia capace di intendere e di volere. Se io vedo che il testamento è stato firmato da un alcolizzato ho buoni motivi per chiederne l’annullamento. Il presupposto legale per riconoscere valida una volontà è che colui che manifesta la volontà sia capace per l’appunto di intendere e di volere.
Evidentemente in Inghilterra hanno stabilito che la donna, per quanto malata gravemente di anoressia, può intendere e volere, se il caso è finito in tribunale.
Ma l’anoressia è uno stato psicopatologico, e ce ne vuole per negarlo perché è uno dei capitoli più importanti della psichiatria degli ultimi vent’anni. Sono d’accordissimo che il giudice abbia rigettato l’istanza, ma non c’è bisogno di dire che la vita umana è sacra, basta dire che qualunque tipo di richiesta di intervento di carattere medico deve presupporre la capacità di intendere e di volere.
Anche i genitori della ragazza però sostengono la sua scelta, dicendo che morire è la cosa migliore per lei; visto che ha sofferto troppo, ha diritto a seguire la strada che ha scelto.
Queste parole fanno capire quanto viviamo in un sistema culturale schizofrenico. Da una parte i principi elementari del diritto rendono indisponibile il corpo umano e invalido il contratto di compravendita di parti dei corpi umani. Difendiamo il corpo umano dichiarandolo indisponibile da parte della stessa persona che ne volesse vendere un parte. Io non posso vendere un rene né in Italia né in Inghilterra, eppure qualcuno pensa che la vita possa essere disponibile. Che paradosso…
In che senso?
La prima obiezione che faccio ai fautori della disponibilità della vita umana è che siccome il meno è compreso nel più, chi è favorevole all’eutanasia volontaria per coerenza dovrebbe essere favorevole alla disponibilità del corpo e alla compravendita di organi. Ma paradossalmente dovrebbe anche essere disponibile alla vendita del proprio voto. Se posso gestire la vita, perché non posso vendere il mio voto, metterlo in vendita al miglior offerente o regalarlo a chi vince la lotteria?
Un paragone forte.
Ci troviamo di fronte a una serie di paradossi uno legato all’altro. In un sistema democratico dove tutto si regge sulla libertà di voto, proprio per questo il voto è indisponibile: sono libero di votare, ma non sono libero di commercializzare o di donare il mio voto o di far votare un altro al posto mio. Non posso delegare mia moglie o mio figlio a dare il voto al posto mio. Invece dovrei essere in grado di gestire la mia stessa vita. E’ un bel paradosso.
C’è anche la paura del dolore: di fronte alla sofferenza chiediamo di farla finita a modo nostro.
Che la sofferenza possa indurre ognuno di noi a una angoscia profonda non c’è dubbio, ma non c’è dubbio che la stessa paura della sofferenza è un dato psicopatologico. Oggi esistono ambiti della medicina, la cosiddetta medicina palliativa, che di fatto tranne casi rarissimi aiutano validamente chiunque a poter sopportare il dolore fisico e psichico. Soprattuto in psichiatria, da una ventina danni abbiamo nuovi farmaci che aiutano a combattere la depressione e garantiscono al malato di depressione una vita quotidiana accettabile. Ognuno di noi ha diritto alla medicina palliativa ma non all’uccisione eutanasica per prevenire situazioni di dolore.
Tornando al caso in questione?
E’ veramente stravagante che si voglia qualificare come capace di intendere e volere un malato anoressico, anche perché se l’anoressico fosse capace di intendere e volere non avrebbe diritto a nessuna terapia, non avrebbe diritto di accedere alle cure sanitarie. Invece, la malattia psichica è importante quanto quella fisica e in un sistema sanitario degno di questo nome ci dovrebbe essere tanta assistenza per le malattie fisiche quanta per le malattie psichiche. Altrimenti arriveremmo al paradosso che l’anoressico non dovrebbe essere curato perché capace di libera scelta.
Cioè quello che vogliono i fautori dell’eutanasia.
Per i fautori dell’eutanasia dovrebbe bastare la mera volontà di morire indipendentemente dal tipo di malattia. Che tu sia un moribondo infelice in amore, o un imprenditore fallito la mera richiesta di eutanasia dovrebbe bastare.
Ecco perché visto che la legge non lo permette si ricorre spesso alle cosiddette cliniche della morte.
Le cosiddette cliniche della morte, pochi ricordano, sono istituzioni a fini di lucro: non si ottiene gratis l’eutanasia, ci si fa ricoverare a pagamento. Forniscono le sostanze letali e liberamente, il ricoverato, le assume e si uccide. Siamo sul filo del rasoio: gli svizzeri molto sottilmente non hanno mai parlato di eutanasia, hanno sempre detto: per noi il suicidio è lecito e non c’è nulla da imputare a chi, senza uccidere la persona, le mette a disposizione quanto le serve per uccidersi.
(Paolo Vites)