Centocinquanta morti, tra cui due bebè e sedici ragazzini di una scolaresca. Fossero tutti adulti potremmo anche cavarcela con qualche lamento sulla fatalità. La morte che ci trova sempre impreparati. I moniti evangelici — non conoscete né il giorno né l’ora, una frase che tiriamo fuori in queste occasioni anche se forse il suo senso non è proprio questo. L’incontro col destino. E poi le discussioni: guasto meccanico, cedimento strutturale, errore umano, aspettiamo la scatola nera.
Ma due bambini piccoli e sedici ragazzini fanno incazzare. Fossero tutti adulti potremmo parlare di fato, perché una persona adulta è adulta proprio per questo, perché sa che il fato appartiene all’ordine della vita. E poi sa anche un’altra cosa: che noi siamo mortali.
Eppure c’è in tutto questo sapere, in tutto questo essere adulti, in tutta questa pacata e malinconica saggezza, qualcosa di profondamente ipocrita. Io per primo, in tante occasioni dolorose, sono ricorso a questo tipo di menzogna.
Si dice che un uomo è giovane finché si pensa immortale, ma poi quel momento passa. Inganno, lo chiama Leopardi: “Perì l’estremo inganno, ch’eterno mi credei”.
Se così fosse, potremmo concludere che la morte di quelle centocinquanta persone, che non avevano la minima intenzione di morire, anche se molti di loro sapevano che morire prima o poi si deve, ma comunque non proprio in quel momento — che la morte, dicevo, di centocinquanta persone in un incidente aereo nel sud della Francia ha una sua sia pur macabra giustizia.
E invece no. Spiacente, ma due bambini piccoli e sedici ragazzini morti non producono un solo milligrammo di giustizia, da qualunque parte li si guardi.
Allora meglio evitare fin da subito certe trappole e concentrarsi sull’ingiustizia di questa tragedia, che è una tragedia proprio perché è ingiusta e lo sarà per sempre.
E’ ingiusta perché noi esistiamo per vivere e non per morire: l’essere-per-la-morte di Heidegger è una bugia, l’essere non è affatto per la morte, perciò la morte è un insulto, anche perché la morte è brutta che più brutta non si può, mentre noi siamo fatti per la bellezza: per la bellezza si nasce, per la bellezza ci si apre al mondo, per la bellezza si ama, la bellezza ci educa — e tutto quello che è umano ha a che fare con questa parola. Essa è la prima parola e la parola finale, ragionevolmente finale, della vita umana.
Aveva ragione Benedetto XVI a non voler confezionare risposte. Alla bambina che gli chiese conto del maremoto in Giappone, lui rispose non lo so, e lo fece con una forza, una consapevolezza, un dolore ma anche una certezza (qualcun Altro sa) che fecero della sua risposta l’unica risposta pienamente ragionevole a questo enigma. Ogni altra risposta, al suo cospetto, si trasforma in astio, ideologia, fideismo, superstizione.
Diventiamo adulti, dunque, ma senza esagerare. Non riempiamoci la testa di risposte. In fondo, la risposta che conta è una sola (chiunque può capire quale), perciò lasciamo che lo scandalo faccia il suo cammino, incazziamoci, teniamo aperta la ferita. La morte sottolinea l’incompiutezza della vita, la parzialità delle biografie, la precarietà delle chiavi di lettura.
Teniamoci questo dolore, cerchiamo di non dimenticarlo troppo in fretta. Per un istante — dite la verità — questa tragedia ha reso disgustoso ai vostri occhi il gossip o la chiacchiera politica che vi piacevano (e che torneranno a piacervi). Vi siete detti: ma cosa sto guardando?, di che cosa sto parlando? Dite la verità: magari per un nanosecondo vi siete fatti un po’ schifo, come è accaduto a me.
Be’, tenetevi caro questo schifo. Non è una risposta definitiva nemmeno quello, ma vi sarà molto utile in tante occasioni.