Il padre aveva fatto ricorso contro la decisione del tribunale di Brescia che affidava il figlio alla madre. Lui, di fede islamica, affermava che la donna, una ex tossicodipendente, non avrebbe potuto educare il figlio secondo il suo contesto religioso d’origine, in quanto convivente con un’altra donna, un’educatrice conosciuta in comunità. La Cassazione, con la sentenza n.601, oltre a rilevare gli atti di violenza del padre nei confronti del figlio, ha stabilito che «alla base della doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza», ma esclusivamente «il mero pregiudizio che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale». Abbiamo chiesto ad Alberto Gambino, Professore ordinario di Diritto Privato e di Diritto Civile presso l’Università Europea di Roma, come interpretare la vicenda.
Anzitutto, quali le sembrano gli elementi principali?
Ricapitolando, un bambino, in una situazione di separazione, è stato affidato alla madre, dato che il padre non era idoneo, a causa del verificarsi di situazioni di incompatibilità; sono, ad esempio, menzionati atti di violenza nei confronti del figlio. Nel frattempo, la madre ha iniziato a vivere con una persona dello stesso sesso. Si è posto quindi il problema rispetto alla possibilità che il contesto familiare o parafamiliare nel quale il minore si è trovato a vivere fosse idoneo per la sua formazione e alla sua educazione.
Come si è orientata la Cassazione?
Andando ben oltre al caso specifico e al contenuto sul quale era stata chiamata a pronunciarsi. Mi spiego meglio: si trattava di verificare se la donna, in quanto madre, potesse avere l’affido del figlio in uno stato di separazione, e non se potesse averlo in quanto convivente con una persona del suo stesso sesso. Tale convivenza, anche laddove fosse stata con un’altra persona in situazione di disagio, avrebbe rappresentato una circostanza aggiuntiva; sulla quale, alla Cassazione, non era stato chiesto di esprimersi.
Come si sarebbe potuta dirimere la vicenda?
Affermando, semplicemente, che la donna fosse di per se stessa idonea all’educazione del figlio per il fatto che le altre circostanze non ne menomavano la capacità educativa. Si sarebbe dovuto fare presente, inoltre, che l’alternativa, ovvero il padre violento, non fosse contemplabile. Invece sono state prodotte delle riflessioni, a partire dalla domanda se la convivenza configurasse un nucleo familiare di per sé pregiudizievole nei confronti del figlio o meno. Ripeto, una verifica che non era richiesta alla Cassazione. Ma il giudice che ha steso la sentenza è andato ancora oltre.
In che modo?
Ha definito il contesto di vita omosessuale “famiglia”, quando la nostra Costituzione afferma chiaramente che possa dirsi tale esclusivamente quella fondata sul matrimonio, mentre il codice civile specifica che quest’ultimo possa essere contratto solo tra un uomo e una donna. Altresì, ha ritenuto che tale contesto familiare non possa essere considerato pregiudizievole perché non ci sarebbero prove di segno contrario.
Secondo lei, qual è stato l’obiettivo di questa sentenza?
Si è voluto implicitamente affermare che anche le coppie omosessuali hanno lo stesso livello di capacità educativa della famiglie tradizionali. E, non da ultimo, si è sostento che sarebbe discriminatorio sostenere che le coppie omosessuali non sono idonee per educare i figli. Si è trattato di un’operazione dal chiaro intento ideologico e culturale, volto ad affermare l’equipollenza tra le coppie gay e le famiglie. Facendo entrare all’interno del ruolo educativo non solo la madre naturale ma anche l’altra convivente dello stesso sesso, si fa intendere che quest’ultima potrebbe esprimere il medesimo ruolo. Si lascia intende, in maniera subdola, che questo contesto sia idoneo anche ad adottare bambini in stato di abbandono.
La sentenza potrebbe creare un precedente?
Precisiamo, anzitutto, che un eventuale ricorso non potrebbe essere avanzato da una coppia gay che volesse adottare un bambino, ma da un padre o da una madre che, avendo intrapreso una convivenza omosessuale, ritenessero di essere idonei. Tuttavia, se un giorno ci fosse un legislatore che aprisse all’adozione per le coppie gay, la sentenza – affermando che la convivenza gay di per sé non preclude alla capacità educativa – avrebbe rappresentato un fattore preparatorio cui appellarsi nella stesura di un eventuale provvedimento.
In che misura, invece, vincolerà i casi analoghi futuri?
La Cassazione emette sentenze non tecnicamente vincolati. Trattandosi, tuttavia, dell’organo supremo, i giudici di grado inferiore cercano di esprimersi in maniera conforme onde evitare che le loro sentenze, prima o poi, vengano cassate. Difficilmente, cioè, i tribunali e le corti d’appello si discostano dagli orientamenti della Cassazione.
(Paolo Nessi)