Scendendo dal nostro Centro di Aiuto alla vita, oggi verso l’una, ho incontrato nel corridoio centrale un’amica e ho fatto due chiacchiere con lei. Mi sono passate accanto, in quei momenti, due donne: camminavano male, rigide, le gambe un po’ divaricate, un colore grigio della pelle come senza vita, la sensazione che stessero da un’altra parte. Non volevano essere lì, ma purtroppo c’erano. Una presenza inutile al fianco di una di loro, impacciato, che non sapeva come starle accanto. Per metà corridoio le cammina stando alla sua sinistra poi, seguendo la traiettoria obliqua di lei, le passa a destra portandole la borsa. Si ferma aspettandola quando improvvisamente la donna si blocca, appoggiandosi allo stipite della porta d’ingresso sopraffatta dal dolore.
Perché, viene da chiedersi? Ero vicina al luogo dove si effettuano le interruzioni volontarie della gravidanza e, dunque, le due signore erano donne che avevano subìto un aborto volontario. Dico “subìto” perché sono convinta che interrompere una gestazione non sia frutto di una libera scelta. Le difficili relazioni familiari, le condizioni economiche ingrate, la non programmazione, la paura di non farcela, i vissuti, forse, negativi di un tempo passato, portano a quello che in molti, anche per abitudine, definiscono un dramma che risulta essere una vera tragedia.
“Norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza”, recita nel suo titolo la legge 194 del 22 maggio 1978. Mi chiedo: ma è vero che la maternità è tutelata? Non sembra così certo! Qualcuno avrà offerto un colloquio di riflessione alla donna che a Torino ha perso la vita per aver affrontato l’esperienza dell’aborto chimico? Due vite si sono perse. Potrà elaborare questo lutto il primo figlio pur assistito da una psicologa? Che cosa gli diranno della mamma che non torna? Le emozioni che sto provando sono davvero molteplici: il marito di quella donna e i suoi genitori? E’ vero, si muore di tante cose, ma una morte in qualche modo “procurata” quanto dolore lascia! In questo caso, poi, c’è l’interrogativo dei farmaci.
Non so dire nulla al proposito, se non che è finito il tempo in cui si voleva socializzare anche l’aborto. Mi immagino la tensione e la fatica della signora di Torino nell’attesa che il suo bambino, quello a cui il farmaco aveva tolto la vita, mentre, continuando a condurre una vita “normale”, aspettava il momento dell’espulsione di quell’esserino. Da brivido! Sarà questa la libertà tanto sbandierata della donna? Quotidianamente ascolto donne che rifiutano la vita che sta crescendo dentro di loro. Come mai molte di loro, nel corso del colloquio previsto dalla legge, cambiano idea tanto da stracciare il certificato? Come mai tante donne sono scese dal lettino chirurgico un attimo prima dell’intervento abortivo? E se la signora di Torino avesse voluto tornare indietro all’ultimo momento? Domande che rimarranno senza risposta.
La femminilità è fatta anche di ambivalenza che va accolta come elemento costitutivo della donna che non va lasciata sola. Tutte quelle ore, inesorabilmente lunghe da lasciar passare! Non siamo i padroni della vita che ci piaccia o no. Credo in un disegno imperscrutabile dove ciascuna vita ha un senso e, quando viene a mancare, mancherà al destino dell’umanità tutta. Oggi, all’umanità tutta, di vite ne abbiamo tolte due.