Anonimato o no? Le adozioni, come si sa, sono un caso molto delicato. Nella maggior parte dei casi le madri che decidono di privarsi del proprio figlio già nella fese del parto per darlo in adozione a una famiglia, decidono per ovvie ragioni di rimanere anonime. Si innesterebbero infatti, in caso contrario, dolorosi meccanismi psicologici, anche se è altrettanto vero che i figli dati in adozione quando arrivano in età adulta desiderano sapere chi erano i propri genitori soprattutto la madre. Secondo la legge italiana una madre che al momento di partorire il proprio figlio decide l’anonimato ha il diritto di preservare questo segreto per sempre. E’ una norma, come dice la stessa Corte costituzionale, che mira a “salvaguardare madre e neonato da qualsiasi turbamento” e che, dunque può rappresentare un effettivo deterrente alla scelta estrema di un’interruzione della gravidanza. Adesso la Corte costituzionale ha chiarito però che la legge 184 del 1983 sulle adozioni, su questo punto, è “censurabile per la sua eccessiva rigidità”. Al momento infatti non era previsto che un giudice col passare del tempo possa rivolgersi – in assoluta riservatezza – alla madre per chiederle se voglia cambiare opinione. La Consulta ha preso in esame il caso di una donna nata nel 1963 e data in adozione nel 1969 e che è cresciuta pensando che i genitori che l’avevano adottata fossero anche quelli naturali. Ora la Corte costituzionale afferma che rimanendo il diritto della madre biologica all’anonimato, ad esso si può rinunciare ove la madre stessa, una volta interpellata in via riservata dall’organo giudiziale, cambi idea. “La decisione della Corte costituzionale che ha disposto la parziale illegittimità della norma della legge sull’adozione – che stabiliva l’anonimato assoluto della madre naturale che aveva partorito dichiarando di non voler essere nominata – ricompone con grande equilibrio il rapporto tra il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche e la riservatezza di chi sceglie di portare a termine una gravidanza non desiderata”. Lo dichiara in una nota il prof. Alberto Gambino, ordinario di diritto civile e direttore del dipartimento di Scienze Umane dell’Università Europea di Roma. “Lasciare infatti una facoltà di interpello alla madre biologica per il disvelamento della sua identità, senza tuttavia obbligarla, consente – prosegue il giurista – di mantenere bilanciati due interessi, quello all’anonimato della madre partoriente, che si lega alla necessità di preservare la vita del nascituro, e quello di conoscere la propria origine”. “Il prof. Paolo Grossi, redattore della sentenza – conclude il prof. Gambino – ha optato per una soluzione equilibrata, ‘alla francese’, non assolutizzando l’interesse a conoscere le proprie origini, così evitando il rischio che una norma di salvaguardia del diritto alla vita del nascituro finisca per vanificare il suo obiettivo dichiarato di ridurre aborti e abbandoni”.