Quando la follia dell’Isis sarà solo un terribile incubo del passato, Faraaz Hossain sarà un eroe.
Bengalese, musulmano, ventenne, studente di economia in occidente, la sera del 1° luglio si trova nel locale della strage quando i jihadisti cominciano a passare tra i tavoli chiedendo se Allah è grande, chiedendo un Allah imparato a memoria per vagliare chi uccidere e chi salvare. Faraaz è al tavolo con due amiche entrambe studentesse, Tarushi Jain, indiana di 19 anni e Abinta Kabir, che però sono vestite all’occidentale. A Faraaz viene permesso di uscire dal locale e lui, una volta fuori, chiede che le amiche siano liberate. I testimoni hanno raccontato che uno dei capi le squadra, ma poi nega il permesso; allora Faraaz decide di restare con loro e viene ucciso. Quando le forze speciali entrano nel locale, trovano i loro tre corpi stretti insieme; le ragazze, prima di morire, sono state a lungo torturate.
Questa notizia è una storia sacra perché è una storia di vita. Di vite. Al plurale. Perché le vite coinvolte sono quelle di tre uomini e di Dio. Perché l’uomo è un essere religioso per definizione, cioè fatto di legami, che sono verticali e orizzontali: con Dio e con gli altri uomini. Nessuno è mai solo: né quando si vive né quando si muore. Legami di amore. Questa è la nostra fede: un legame di amore. Nostra non perché cattolica ma perché umana. Storia tra Dio e l’uomo, storia di amore. Scrivo ripetizioni perché scrivo e riscrivo come leggo e rileggo questa notizia che è come un breviario. Un salmo di lamenti e di lode a Dio. Un salmo dove un uomo non lascia sole due amiche nella tortura e nella morte. Questa notizia è una liturgia sacra dove ci sono preghiere di dolore e di commozione: lì dove donne, anche incinte, uomini, ragazzi e ragazze vengono torturati e sgozzati, e un uomo è un eroe che cerca di salvare e viene ucciso. Prega per me Faraaz Hossain, ora pro nobis musulmano. Quando un uomo muore per amore, per amicizia, quello si chiama martirio della carità, qualsiasi religione sia.
Non perdo tempo a chiedere dei perché che hanno risposte lunghe quanto la storia dell’umanità. Non ha un perché il dolore insensato, innocente. Esiste solo la possibilità di condividerlo con Dio. Di dire che non siamo soli mai e di commuoverci e inginocchiarci accanto alle vittime e a Hossain. Leggo questa storia di vita e di morte e leggo la bestemmia più terribile. Che non è il blasfemo intercalare di qualche volgare dialetto nostrano ma l’uccidere in nome di Dio. Il Dio di Faraaz Hossain è grande. Hanno ragione i musulmani. Ce lo insegna Faraaz, mussulmano, bengalese, ventenne, studente in economia, capace d’amicizia. Ce lo insegna lui che Dio è grande.
Faraaz poteva salvarsi, aveva il permesso di uscire, glielo davano i terroristi ma non glielo dava la sua coscienza. Per questo non si è mosso. Prega per me, Faraaz Hossain, che non ti sei mosso. Il tuo Dio è grande ed è anche il mio Dio. Lui, il nostro Dio, vive con noi, si lega a noi, risiede lì nella coscienza. Non in preghiere malate, imparate a memoria. Non nel vestito giusto. Non nella dottrina giusta. Mai e poi mai nella morte. Il tuo Dio, Faraaz, era rimasto con le tue amiche musulmane, correligionarie come te ma vestite all’occidentale. Tu l’hai riconosciuto perché Dio è grande.
Ora siete morti tutti ma siete vivi tutti. Perché ci date respiro, vita, con questa storia di legami. D’amicizia più forte della paura e della morte. Della tortura. Questa storia è vera religione, la vera religione. Parola di Dio.