Per qualcuno può essere una questione di chimica, un fatto di neuroni. Per altri è il semplice appagamento di un bisogno fisico, biologico. Per altri ancora è un paradiso artificiale da raggiungere con farmaci o droghe, ma può essere anche fonte di paradossi, squilibrata e relativa. Con l’ottava edizione del Festival delle Scienze, in programma da giovedì 17 a domenica 20 gennaio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, inizia un misterioso viaggio verso la cosiddetta ricerca (scientifica) della felicità. Quali sono i comportamenti che ci portano alla felicità? Quali, invece, le sue basi nel nostro cervello? Abbiamo chiesto un primo giudizio a Mauro Ceroni, neurologo e docente di Neurologia nell’Università di Pavia, secondo cui «è importante innanzitutto capire il motivo per cui si è deciso di organizzare un convegno scientifico sulla ricerca della felicità. Per farlo è necessario analizzare quanto avvenuto negli ultimi vent’anni circa».
Che cosa intende?
In passato un tema come quello della felicità non è mai stato oggetto di una conoscenza scientifica, ma è stato sempre analizzato dalla cultura umanistica, dalla letteratura alla filosofia, fino all’arte e alla religione. Recentemente, invece, possiamo usufruire di strumenti con i quali è possibile osservare cosa accade nel nostro cervello quando pensiamo una specifica cosa o quando compiamo un’azione. Grazie a questo è stato dunque possibile iniziare a mappare e a osservare quali sono le aree del nostro cervello che si “accendono” in corrispondenza di determinati stimoli.
Cosa rilevano questi sistemi di indagine?
Sostanzialmente un aumento del flusso ematico, espressione in qualche modo correlata con l’attività neuronale. Sapevamo perfettamente anche prima che, qualunque cosa accada nella persona umana, avviene sempre l’“accensione” di un’area cerebrale, visto che non esiste nulla nell’uomo che non abbia un’espressione anche nel cervello.
A cosa hanno portato dunque questi risultati?
Alquanto erroneamente e semplicisticamente, si è cominciato a pensare che tali “accensioni” nel cervello fossero la causa di ciò che proviamo, ma in realtà l’esperimento non offre alcuna ragione di giungere a questa conclusione. Il problema di come questo processo avvenga non viene quindi assolutamente risolto da tali metodiche, le quali invece mostrano solamente il correlato neurofisiologico.
Questo cosa comporta?
Che le risposte che verranno date a domande come quelle sulla ricerca della felicità dipenderanno molto dalla concezione di uomo che ha in mente l’operatore che poi è chiamato a elaborare e interpretare i dati.
Si spieghi, professore.
Se si pensa che tutta la persona umana sia riducibile al suo cervello, che quindi “noi siamo il nostro cervello”, è logico che tutto quello che accadrà nel cervello verrà interpretato come la causa scatenante di ciò che proviamo. Se invece si mantiene la percezione, molto più ragionevole, che l’uomo non è solo il suo cervello, non si esaurisce in esso, ma è qualcosa che va ben oltre, allora è chiaro che la questione rimane ancora totalmente aperta.
Come si fa allora ad affrontare correttamente un tema come quello della felicità?
Quello della felicità è un tema strettamente connesso all’esperienza, la quale, nonostante tutti gli esperimenti che si possono condurre a riguardo, è sempre decisamente soggettiva. E’ per questo che l’esperienza è sempre qualcosa di unicamente nostro, spesso neanche totalmente comunicabile.
Se quindi vogliamo parlare di felicità, da cosa dobbiamo partire?
Dal fatto che tutto trae le proprie origini dalla nostra personale esperienza. Se non partiamo da questo punto non potremo mai affrontare correttamente il tema, oppure sceglieremmo di muoverci partendo da un pregiudizio. Insomma, non saremo mai in grado di elaborare la “formula” della felicità se non iniziamo a ragionare dalla nostra esperienza personale e su ciò che per noi significa ricercare la felicità.
(Claudio Perlini)