Nella richiesta di archiviazione con cui i pm Tiziana Siciliano e Sara Antonini hanno voluto assolvere Marco Cappato dalla potenziale accusa di eutanasia, la parte iniziale della relazione è occupata dalla descrizione della vicenda del dj Fabo, mentre nella seconda e ultima parte i due pm dissezionano l’articolo 580 del codice penale, per dimostrare artificiosamente l’irrilevanza del contributo di Cappato alla morte di Fabo.
Il profilo di Fabiano Antonini, che emerge dal quadro ricostruito dai due magistrati, è quello di un uomo giovane, pieno di voglia di vivere, vittima di un grave incidente, ma determinato ad affrontare coraggiosamente la situazione che ne consegue. Nei primi 12 mesi dopo l’incidente, si legge nella relazione dei due pm, Fabo “rifiutava di piegarsi a quello che sembrava un destino ineluttabile”. Ha accettato tutti i trattamenti proposti, da quelli più tradizionali a quelli più innovativi, come il trapianto di cellule staminali fatto in India.
Accanto a lui la sua famiglia, compresa la fidanzata, sembra disposta a lottare insieme a lui, a condividere le sue speranze, probabilmente trascinata dal suo iniziale entusiasmo, dalla sua voglia di vivere, ma incapace di sostenerlo quando lui ha smesso di sperare e di lottare. La relazione dei pm si sofferma nella descrizione del dolore non controllabile di Fabo, anche ricorrendo a farmaci molto potenti, se non a prezzo di una perdita di lucidità, che lui non sopportava, perché creava delle barriere tra lui e le persone che amava. Marco Cappato nell’interrogatorio del 4 aprile ha affermato come l’alternativa per Fabo fosse tra il controllo del dolore e il mantenimento dello stato di coscienza e secondo lui Fabo ha scelto la morte, deliberatamente e lucidamente. Lui si è limitato ad accompagnare Fabo dove voleva andare: incontro alla morte. Niente di più e niente di meno.
Eppure colpisce l’assoluta diversità dei comportamenti dei familiari, che fin dalla prima fase della sua malattia hanno cercato in tutti i modi di sostenerne la volontà di vivere, fino a quel viaggio della speranza in India, che già nelle premesse appariva un viaggio ad alto rischio di delusione. Cappato afferma di essersi limitato a prendere atto della disgiuntiva posta da Fabiano e ha semplicemente esaudito il suo desiderio. E secondo la legge appena approvata alla Camera, non è perseguibile, art. 1, comma 7: “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”.
E’ vero, la legge continua affermando che il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali. Ma poiché il passaggio in macchina dall’Italia alla Svizzera non è un trattamento sanitario contrario a norme di legge, allora Cappato in questa vicenda emerge come un buon samaritano che si è caricato sulle sue spalle il povero Fabo. Solo che invece di condurlo in un luogo di cura, lo ha condotto in un luogo di morte e così facendo ha meritato la benevolenza dei pubblici ministeri, perché il fatto compiuto non costituisce reato, nonostante l’articolo 580 del cp non sia stato abolito.
E su questo punto si sofferma la seconda parte della relazione dei due pm. L’articolo 580 infatti recita esattamente: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da 5 a 12 anni…”. Non so se Cappato abbia rafforzato il proposito di Fabo mentre lo accompagnava in macchina verso la morte, ma certamente ne ha agevolato l’esecuzione. Eppure per i pm Cappato non è punibile, la sua appare semplicemente “una partecipazione materiale”; il suo caso è ormai archiviato, il reato non esiste.
Nella sentenza di archiviazione i due magistrati si arrampicano davvero sugli specchi per ammettere da un lato la sua partecipazione materiale e dall’altro garantirgli la non punibilità. Finiscono, come spesso accade in casi indifendibili, con lo scaricare la responsabilità su altri: sui magistrati svizzeri, che forse ignoravano la illiceità del gesto di Cappato, e sul nostro ministro della Giustizia, perché non ha fatto richiesta di giudizio e di condanna. E la conclusione appare un capolavoro di ipocrisia: “Sulla base dell’insegnamento della Suprema Corte il fatto commesso all’estero da un cittadino italiano (e quindi a fortiori straniero) non è perseguibile, se manca la doppia incriminazione”, quella svizzera e quella italiana. Che Fabo sia morto perché condotto in macchina a morire da Cappato non ha importanza, dal momento che il ministro Orlando non ha impugnato il fatto e i magistrati svizzeri potevano ignorare l’articolo 580 del cp italiano. Cappato risulta a tutti gli effetti innocente.
Nel commentare la sentenza dei due pm si resta esterrefatti. Davanti alla morte di un uomo e davanti alla fattispecie di un reato grave come l’eutanasia, perché tale resta la morte di Fabo, il nodo della questione viene spostato in modo fazioso sulla peculiare applicazione di procedure, davanti alle quali la responsabilità di Cappato viene totalmente spostata su altri soggetti, lasciando lui libero di continuare a fare il tassista della morte.