Non si può entrare nel mistero di un uomo e una donna se non con una punta di ragionevole pudore. Alessio e Gisella erano sposati da un paio d’anni, abitavano a Rapallo e — come dicono le fredde agenzie di stampa — avevano problemi di convivenza. Problemi così grandi che Gisella pare volesse allontanare il marito da casa, problemi così tragici che Alessio l’ha uccisa con quattro coltellate e poi, afferrando il piccolo figlioletto di un anno, si è scagliato dal balcone per porre fine alla vita di entrambi e adempiere così al profetico sms con il quale pare avesse annunciato alla sorella il folle gesto.
È un’Italia strana quella di questo Natale. La violenza domestica si moltiplica e l’istituzione matrimoniale, ma più in generale la vita affettiva di tanti di noi, sembra segnata da un male oscuro, indicibile, che morde e distrugge ogni più elementare rispetto, ogni più naturale consapevolezza del bene e del male. Niente è più evidente. Niente è più condiviso. E quello che rimane è solo un’inesorabile violenza. Una violenza che non nasce da ragioni sociali o economiche, ma che si annida nel cuore di ciascuno di noi e che merita di essere guardata in faccia.
Noi non possiamo sapere, infatti, quello che è realmente successo ad Alessio e Gisella e non possiamo giustificare il tutto con il pettegolezzo e le sentenze moralmente edificanti che offendono il dolore di chi in queste ore piange dei parenti, degli amici, dei concittadini. Ma possiamo invece volgere lo sguardo a che cosa sono diventati i nostri rapporti affettivi, le nostre amicizie, i nostri matrimoni.
Persa ogni consapevolezza del fatto che il nostro cuore è fatto di un desiderio infinito, che niente e nessuno potrà mai compiere, abbiamo iniziato a pretendere che l’altro rispondesse alla nostra “fame di bene” e che fosse adeguato alla nostra “sete di felicità”. Ma l’altro sempre ci delude perché in ultima istanza l’altro non è mai il Tutto che attendiamo, ma è sempre e solo l’inizio di quel Tutto. Al di fuori di questa coscienza ogni gesto d’amore diventa pretesa, ogni istante insieme diventa possesso e tutto finisce per risolversi in un reciproco sbranarsi che lascia il nostro cuore a brandelli, solo.
Attraverso il sesso spesso cerchiamo delle scorciatoie facili perché l’altro ci possa dare, nel minor tempo possibile, quello che vogliamo in modo tale da averlo, da consumarlo, da esaurirlo, per poi passare ad un altro prodotto. Il matrimonio diventa così il luogo di una continua ed imponente pretesa, di un imperterrito tentativo di trovare soddisfazione completa in quello che l’altro può darmi e di cui io sento di avere diritto.
Siamo in tempo di avvento. Anche Maria e Giuseppe si dovevano sposare, anche loro avevano precisi desideri e — soprattutto Giuseppe — sperava di poter placare l’insoddisfazione del proprio cuore con le forme di quel suo tempo. Come oggi, quando pensiamo che un cane, una donna o un figlio possano metterci sul serio la vita a posto. Ma Giuseppe ha dovuto imparare a sue spese che desiderava troppo poco per sé, che stava semplicemente cercando di chiudere i conti della propria vita “usando” Maria. E ha dovuto capire che, prima di sposare quella donna, avrebbe dovuto sposare se stesso, le proprie ferite, la propria umanità. Solo dopo quel “matrimonio interiore” sarebbe stato in grado di accogliere la propria sposa senza possederla, senza ridurla ad un giocattolo desiderabile ma provvisorio, un arnese al servizio della sua tristezza e della sua lacerante sproporzione.
Ogni rapporto è quindi minacciato dal possesso e dalla violenza, ogni amore è destinato a finire se lo si vuole ma non lo si sceglie, ogni “per sempre” detto senza tremore è infine esposto a quella estraneità che ti invade il cuore a poco a poco, fino a non riconoscere più nella persona che dorme con te quella che hai voluto e che hai davvero amato.
Ma forse la verità è che ogni giorno dobbiamo sposarci. Con noi stessi e con chi amiamo. Perché ogni giorno il nostro desiderio di bene cresce e l’altro continuamente cambia. Il capriccio affinché tutto sia sempre uguale, fatato come il primo giorno, rende irriconoscibile dopo poco tempo coloro ai quali ci siamo donati. Ed è allora che sorge la tentazione di rivolere la nostra vita indietro fino a considerare l’altro come un ostacolo, un nemico, una delusione, la scelta più sbagliata della nostra vita. Che va, ad un certo punto, solo eliminata.
Noi non sappiamo quello che è successo ad Alessio e Gisella. Ma sappiamo quello che succede a noi quando il desiderio del nostro cuore non è più evidente e tutto sembra cospirare contro la nostra felicità: diventiamo schiavi della rabbia, vittime di ogni recriminazione o — molto più banalmente — pronti a rivendicare il nostro Io, e il nostro bisogno di bene, a costo di qualunque cosa, al prezzo di qualsiasi violenza. È questo il dramma di Rapallo, il dramma di Maria e Giuseppe. Il dramma di ognuno di noi.