Lentamente il congresso del Partito democratico sta addirittura scivolando in secondo piano nella cronaca politica e si aspetta solo un conteggio dei voti delle cosiddette primarie che sembra scontato, con la riconferma di Matteo Renzi alla segreteria.
Ma se si cerca solo di paragonare i toni di qualche settimana fa, che promettevano un grande dibattito interno, dopo la scissione, con la ricerca dei temi da discutere su una sinistra moderna, in un serrato confronto fra i tre candidati, si resta sconfortati.
Cominciamo da una considerazione. Sul piano delle probabilità di conferma alla segreteria del partito non sembrano esserci dubbi. Matteo Renzi sarà riconfermato.
Michele Emiliano, il presidente della Puglia, in pole-position per diventare scissionista e poi riconvertito a una battaglia interna, sembra quasi assumere, in qualche occasione, toni folkloristici e viene accreditato di una percentuale molto bassa nei primi congressi dei circoli e di quello che resta della struttura del partito. E’ l’autentico outsider di una partita senza storia, un ottimo terzo (su tre concorrenti) che “partecipa”, non si sa se con spirito decoubertiniano o per protagonismo narcisistico.
Il terzo candidato, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha tutta l’aria di un “bravo ragazzo” abbastanza spaesato, che è stato quasi catapultato, convinto e sospinto dai non renziani e non scissionisti, a partecipare, a battersi per salvare la faccia di un partito sempre più caratterizzato da una deriva centrista, neppure più di centrosinistra annacquato. L’endorsement dei Cuperlo e dei Letta per il giovane Orlando non sembra avere un peso determinante in questa corsa alla segreteria del partito. Al momento non sposta nulla, assegna solo una percentuale di “buon secondo” in questa corsa nata sul disastro del 4 dicembre 2016, con la sconfitta del referendum costituzionale e la voglia di rivincita rabbiosa di Matteo Renzi.
Conviene soffermarsi per un attimo su questa situazione per vedere quello che può accadere nei prossimi mesi, che avranno comunque una prevalente caratterizzazione di politica internazionale: tra le elezioni francesi, quelle tedesche, i sempre più complicati problemi europei e le acrobazie di Donald Trump, all’interno degli Stati Uniti e sul piano dei nuovi rapporti di forza globali. Tutto questo farà passare inevitabilmente ancora di più in secondo ordine il cosiddetto dibattito nel Pd.
L’impressione, per dirla tutta, è che con il disastro del 4 dicembre si sia conclusa un’altra fase storica italiana e ne sia cominciata una nuova.
Nel momento in cui il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha messo una sbarramento a nuove immediate (o comunque ravvicinate) elezioni il destino di Renzi è stato inevitabilmente segnato. E la cosiddetta rivincita è diventata una sfida impossibile.
Precipitoso e anche un poco superficiale, Renzi ha dato le dimissioni per rilanciare, ma solo per una questione di immagine, non comprendendo che invece oggi la sinistra, che il Pd dovrebbe rappresentare, anche nella forma “edulcorata” che vuole lui, è ormai identificata con una sostanziale mancanza di politica economica che riesca a far uscire il Paese dalla crisi e con un impianto istituzionale pasticciato e limitato.
Una strategia più accorta e più meditata, meno dettata dalla voglia di vendetta e di superficiale protagonismo, avrebbe potuto spingere Renzi non a ripetere giaculatorie politiche o luoghi comuni stranoti, al Lingotto e in altri posti, ma a porre con forza tre o quattro temi decisivi per una sinistra moderna, sulla base del fallimento generale di questi anni di tutto quello che viene contrabbandato per sinistra nel mondo, in Europa e in Italia.
Il problema non è certamente semplice, nella confusione culturale di questo momento e dove probabilmente anche alcune vecchie ricette possono rivelarsi sbagliate, ma occorre avere il coraggio di ridiscutere tutto ispirandosi ai principi fondatori.
Adagiarsi, invece, sostanzialmente sulla “linea del delirio” della coppia Alesina&Giavazzi (tanto per citare un esempio), che il liberismo è di sinistra, significa non solo azzerare la storia della sinistra, in quasi tutte le sue sfumature e contraddizioni anche dure, ma suscitare cadute nel folklore parallelo e opposto di chi si mette a cantare “Bandiera rossa”.
La realtà è che oggi bisognerebbe avere il coraggio di scegliere e di rischiare nell’interesse di ceti sociali che si è storicamente rappresentato e di usare nuove parole d’ordine per acquisire nuovi ceti che sono esclusi e mortificati dal grande potere che comanda a livello globale.
Per fare questo ci vuole non solo passione politica, non tanto filosofica o ideologica, ma anche immaginazione e capacità di realizzare un nuovo partito che sia erede della tradizione della sinistra, senza perdite di memoria storica, senza “maxiballe” e con grande realismo.
Insomma significa fare i conti con la storia, almeno dal dopoguerra a oggi, passando poi dalla lezione del 1989 senza acrobazie della memoria. Ma, ripetiamo, senza balle e ambiguità, perché alla fine gli elettori, anche se appaiono sprovveduti, si accorgono dei raggiri e delle promesse che si perdono nel vento.
Al momento, l’impressione è che tutto questo a Renzi non interessi e non gli interessi nemmeno del partito. Quello che si intravvede è che l’ex presidente del Consiglio, piuttosto, si serva del partito per segnare solo la storia della politica complessiva italiana, seduto sulla poltrona di Palazzo Chigi. Alla fine, questa mancanza di passione politica autentica e di identificazione della politica con la gestione immediata del potere, ha portato Renzi alla clamorosa sconfitta del 4 dicembre e sta segnando il suo destino verso la “rivincita impossibile”.
Che cosa ha in mano oggi Renzi? I voti del suo Pd in declino, che perde consensi e non arresta la corsa dei pentastellati, guidati o garantiti da un comico.
E’ vero che i sondaggi non ci prendono da qualche anno a questa parte, ma non è impossibile immaginare un Pd che si attesta sul 25 per cento, che perde consenso anche alle prossime amministrative, che lascia sempre più lontani gli elettori dalle urne, che di fronte a un possibile centrodestra ricompattato diventi il “terzi polo” di un sistema ingovernabile.
Alla fine, in un Paese impoverito, che ha rinviato tutti i suoi reali problemi istituzionali (anche il rapporto tra i poteri dello Stato) dal 1992 a oggi e che si è limitato a svendere la sua impresa pubblica per fare cassa, il fenomeno di Rignano, la speranza della Leopolda, rischi diventare, pur essendo riconfermato segretario, il “becchino” della sinistra italiana.