La ruvida risposta, dalla più rumorosa cassa di risonanza europea (il Financial Times), del nostro Premier al Presidente della Bce Mario Draghi, che invitava a considerare ulteriori passi degli Stati membri nel processo di cessione di sovranità, è senz’altro in linea con l’idea forte che Renzi ha di sé e della supremazia della politica sulla tecnica. Ma per parafrasare Panebianco, alla politica si deve chiedere che, nelle situazioni molto complesse, si doti di adeguati strumenti conoscitivi – magari circondandosi di consulenti capaci non scelti con il criterio dell’inflessione linguistica – e affronti problemi difficili con sufficiente cognizione di causa. Quell’intervista, resa nella stessa grammatica con cui Renzi è solito rivolgersi a un Cuperlo o Fassina qualunque, alla vigilia di decisioni nodali della Bce impegnata nel vigile monitoraggio sui rischi di deflazione, non è parsa pienamente cosciente di quelle complessità.
Le banche italiane chiederanno a settembre alla Banca centrale europea, quale prima tranche, fino a 34 miliardi di euro nel contesto della maxi-iniezione di liquidità decisa il 5 giugno scorso e che, secondo Morgan Stanley, porterà nelle casse degli istituti della penisola fino a 237 miliardi di euro. Ossigeno puro per l’Italia. Secondo il governatore Visco, il programma Tltro della Bce dovrebbe avere significativi effetti positivi sull’economia nazionale e “se gli istituti di credito utilizzeranno al meglio i fondi, si potrebbe registrare una crescita aggiuntiva – da qui al 2016 – pari a un valore compreso tra lo 0,5 e l’1% del Pil”.
Tali decisioni di cui beneficeranno in Europa soprattutto le banche del Bel Paese (oltre quelle spagnole) hanno provocato più di un mal di pancia in Germania. E anche un Premier che va di fretta non può poi non sapere quali delicati equilibri in seno al Consiglio della banca centrale si debbano incardinare per avere un possibile (e oggi molto contrastato) via libera nel varo di qualche forma di Quantitative easing (Qe) in salsa europea – con l’acquisto (non sterilizzato) di titoli sovrani periferici o di quelli privati (Abs) – allo scopo di contrastare una deflazione sempre più evidente dagli ultimi dati, abbassare il valore del cambio dell’euro e aiutare l’anemica ripresa europea.
Le dichiarazioni del Premier, nella sostanza politica assimilabili a quelle di un vecchio deputato gollista o grillino, nella difesa di un simulacro di sovranità statale più apparente che reale, hanno oggettivamente indebolito le posizioni di Draghi nel corpo a corpo con la Bundesbank. E alimentato i dubbi nelle cancellerie europee sull’effettiva volontà italiana di implementare il programma di riforme radicali promesse che nessuno ha impedito all’Italia nei mesi scorsi di fare e che l’Europa sarebbe ben lieta di veder fare con le nostre manine.
A Francoforte non sono certo un mistero le riconosciute straordinarie doti politiche del banchiere italiano, che prima hanno consentito il varo del programma salva-euro (e salva-Italia con esso) di acquisto illimitato di bond (le note Outright monetary transactions, Omt) con il consenso dell’intero direttivo Bce, compreso quel Jörg Asmussen, suo potente vicepresidente nominato dalla Merkel, e voto contrario della sola Bundesbank, e poi, nelle recenti e vaste operazioni annunciate per indirizzare il tasso di inflazione al target dei trattati del 2%, hanno portato anche la Banca centrale tedesca a condividere i medesimi obiettivi. Una faticosa e paziente opera diplomatica sacrificata sull’altare di un’intervista dai chiari destinatari domestici e che poco ha aggiunto a quanto il Premier nella sua bulimia comunicativa ha già detto.
Sotto questo aspetto, quella rivendicazione di autonomia decisionale, che avrebbe potuto essere fatta valere in altre sedi e forme, non ha servito gli interessi nazionali. Sotto altri appare perfino più dannosa. E mettere in guardia dalla politica che aspira “a cambiare verso” alle cose senza prima conoscerne il verso naturale. L’euro, piaccia o no, ha instaurato un gigantesco condominio. Nel quale l’incendio ai piani delle proprietà contigue non può “far stare sereni” i condomini. Esiste un evidente principio dei vasi comunicanti tra le economie parti di un’unica area monetaria.
A colpi di trattati (il Patto di stabilità e crescita, il cosiddetto Fiscal compact ma anche il trattato sul Fondo salva-Stati Mes) e di fonti secondarie (i regolamenti two-pack, six pack), la libertà di spesa dei paesi euro è stata definitivamente imbrigliata e con essa la sovranità fiscale sui saldi dei bilanci nazionali è andata sostanzialmente persa. Le politiche microeconomiche sono ancora, nel loro aspetto decisionale, affare invece degli Stati. Le riforme del mercato del lavoro, delle pensioni, del welfare e le politiche per la crescita in generale, sono oggi semplicemente coordinate, durante il semestre europeo, attraverso il Piano nazionale di riforma sottoposto alla Commissione, secondo il cosiddetto “Open method of coordination”. Tale metodo, di “interazione spontanea” tra Stati e Istituzioni Ue, non dispone di poteri coercitivi e dunque scoprono l’acqua calda i governi (l’aveva fatto anche Hollande sulla sua controriforma delle pensioni criticata dalla Commissione) che rivendicano l’ultima parola in argomento.
Tuttavia anche gli ultimi degli economisti sanno che la crescita di un Paese, nel contesto di vasi comunicanti indicato, è un bene comune dell’area euro. Anche perché si possono serrare i cordoni della spesa quanto si vuole, ma senza la crescita, un Paese non è in grado di ripagare il suo debito. E questo non può non preoccupare tutti. Questa zoppia tra politiche fiscali e politiche economiche, in un’unione monetaria, la comunità scientifica sa che non potrà durare a lungo. Naturalmente lo sa anche Mario Draghi, ex professore di Politica economica internazionale.
Dunque, restando nel paradigma della moneta unica, le strade che all’Italia si aprono sono due. La prima è la scelta dello struzzo: far finta di non vedere queste dinamiche delle aree monetarie. Non curarsi di queste “forze irresistibili” sottostanti, che hanno già messo in sofferenza i principi democratici. Stracciarsi le vesti, ora come allora, se un banchiere centrale privo di legittimazione democratica scrive una lettera nella quale detta le politiche economiche sostanzialmente commissariando la politica di un Paese dannosa a se stesso e agli altri. Ma alla fine accettare lo status quo nel quale, com’è noto, peraltro dentro e fuori l’area della moneta unica, i creditori fanno le regole (nell’area euro evidentemente di più per la governance “imposta” dalla moneta comune).
Tirata fuori la testa dalla sabbia, la verità è che un Paese come il nostro, che dipende così acutamente dai mercati finanziari, avendo un rapporto debito/Pil previsto in salita al 136,4% nel 2014 e che manifesta una cronica incapacità a crescere a sufficienza per ripagarlo, la sua piena sovranità l’avrebbe comunque persa. Ciò vale per Italia, l’Argentina o qualsiasi altro Paese. Questa parvenza di sovranità, nel solco della logica dello struzzo, potrà continuare a essere difesa, attraverso i cosiddetti “contractual agreements” (anche Icc). Gli accordi che potranno essere “liberamente” concordati a livello bilaterale tra la Commissione europea e gli stati membri con untrade off tra riforme e incentivi finanziari. Non a caso essi sono caldeggiati dalla Germania, in quanto perpetuativi della logica del più forte e delle asimmetrie tra paesi.
La strada alternativa è invece quella delle cessioni simmetriche di sovranità nell’area euro (anche nelle politiche economiche) con la nomina di un ministro dell’economia e la messa in cantiere di un bilancio federale della zona euro. Una direzione di marcia che il presidente della Bce si è limitato ad additare agli Stati. Quel che è certo, come la stessa Bce dimostra quotidianamente, è che solo attraverso istituzioni europee forti, che perseguono interessi generali non decidendo all’unanimità secondo il metodo intergovernativo, gli interessi italiani (e del popolo europeo) e non solo quelli tedeschi, potranno essere difesi. Solo per questa strada si incontrerà ancora la democrazia.