Si chiama Nairu, Non accelerating inflation rate of unemployement: livello di disoccupazione che non accelera l’inflazione. Il nuovo acronimo non è stato inventato da Janet Yellen, ma il presidente della Fed ha lasciato che circolasse volentieri già nei giorni precedenti il Fomc mensile conclusosi ieri. Con indicazioni alla fine incerte: il rialzo di Wall Street (superiore all’1%) e l’indebolimento del dollaro (giunto al 3%) hanno apertamente contraddetto il cauto signalling della banca centrale americana in direzione dell’aumento dei tassi preannunciato per la seconda metà dell’anno.
La generica “perdita di pazienza” dei governatori Fed sul fronte dei tassi è stata del resto privata di significato proprio da un cambio in corsa del metro per la disoccupazione – la controversa stella polare della politica monetaria Fed “made in Yellen”.
Nelle proiezioni diffuse ieri, la banca centrale di Washington ha fissato nuove soglie sensibili per la fine del 2015: non più l’intervallo 5,5%-5,2% (ritenuto finora sostenibile in quanto “piena occupazione di lungo periodo”), ma quello fra il 5,2% fino al 5%. Yellen – giunta al vertice Fed con la fama di “colomba” – sembra dunque aver dato ascolto alle preoccupazioni lanciate già all’inizio dell’anno dal presidente della Federal Reserve di Boston, Eric Rosengren, secondo cui “non sono ancora stati osservati quei segni di pressione su prezzi e salari che almeno alcuni si aspettavano con la disoccupazione al 5,6%”.
Ecco il “Nairu” in azione: bilanciato, certo, dalla cancellazione della parola “pazienza”, ma non abbastanza da convincere i mercati che i tassi del dollaro – fermi allo 0,25%, virtualmente a zero – saranno rialzati prima del decennale dell’ultimo incremento, nel 2006.
La Fed rimane comunque dubbiosa sulla robustezza del ciclo economico Usa, che ha chiuso il 2014 con un progresso annuo del Pil del 2,4%, ma in rallentamento nell’ultimo trimestre. Ma resta anche la tradizionale cautela di un presidente Fed di nomina democrat, con un inquilino democrat alla Casa Bianca, per di più in scadenza e in difficoltà sul fronte della politica estera, e la probabile candidatura di una donna democrat nel 2016. E benché tutti si siano affannati a smentire nuovamente accenni di guerra valutaria, l’effetto del Quantitative easing deciso a gran fatica dalla Bce di Mario Draghi è stato probabilmente più netto rispetto alle attese: l’euro ha rapidamente avvicinato la soglia – non solo psicologica – della parità col dollaro. Ed è questo, in fondo, il dato grezzo più significativo giunto dal Fomc di marzo.
A dispetto di tutti i propositi di coordinamento delle politiche monetarie a fini di ripresa globale, la “staffetta” dell’espansionismo monetario fra dollaro ed euro è probabilmente meno condivisa di quanto sembri e gli Usa restano alla fine strettamente preoccupati del ritmo della propria economia. Se poi il ritardo – ormai indefinito – nell’iniziare un vero riassorbimento dell’iper-liquidità immessa dalla Fed dal 2010 in poi alimenta nuovi rischi di bolla, questo continua a non preoccupare troppo né Wall Street, né la City che su quel materasso di liquidità continuano a rimanere comodamente sdraiate.