Se il buongiorno si vede dal mattino, quello di ieri doveva essere un giorno speciale per Enrico Letta, chiamato alla prova della fiducia alla Camera per il suo esecutivo con un viatico non di poco conto da parte dei mercati. Ma si sa, le aste passano, i dati macro restano e le sfide per il nuovo governo si fanno davvero serie. Ma partiamo dal principio, ovvero dal fatto che ieri il Tesoro ha venduto tutti i 6 miliardi di Btp a 5 e 10 anni, con tassi ai minimi addirittura da ottobre 2010. Il rendimento medio del decennale (quinta tranche), collocato per l’importo di 3 miliardi, è infatti sceso al 3,94% dal 4,66% di marzo e quello del quinquennale (terza tranche), assegnato sempre per 3 miliardi, al 2,84% dal 3,65% precedente. Insomma, un successone, anche a livello di bid-to-cover. La domanda ha infatti raggiunto in totale gli 8,35 miliardi di euro. Nel dettaglio, l’appetito per i quinquennali è stato di 1,36 volte l’offerta (1,22 nell’asta precedente), mentre per i decennali di 1,42 volte da 1,33 volte. «Il Tesoro ha sfruttato in pieno la buona apertura di questa mattina del mercato, in risposta alla formazione del governo, con l’Italia che sovraperformava non solo la Germania ma anche Spagna e Irlanda», commentava a caldo con MF-MilanoFinanza Chiara Manenti di Intesa Sanpaolo.
La Borsa di Milano appariva infatti tonica e in rialzo di quasi due punti percentuali, sintomo di una fiducia dei mercati verso l’ipotesi di un governo stabile e relativamente duraturo. La pensavano così gli esperti di Goldman Sachs, a detta dei quali «questo esecutivo invia un messaggio importante all’elettorato, che chiedeva un rinnovo dell’establishment e un sistema politico più efficiente e responsabile. La composizione dell’esecutivo, inoltre, potrebbe essere vista come un ulteriore fattore positivo, segnalando una maggior longevità del nuovo governo rispetto a solo pochi trimestri e questo secondo noi non è pienamente scontato». Insomma, speranza ed entusiasmo. Anche perché, dopo le aste di ieri, il Tesoro ha collocato da inizio anno complessivi 196 miliardi nominali di titoli, pari al 44% dell’importo lordo atteso per quest’anno, pari a 445 miliardi di emissioni (primo emittente di titoli di Stato dell’eurozona).
E mentre oggi, quando toccherà al Senato dare la fiducia al nuovo governo, il Tesoro rimborserà 12,442 miliardi di CTz in scadenza, qualche nuvola già nella tarda mattina di ieri oscurava il brillante risultato dell’asta. Se mercati e investitori brindano, infatti, l’economia reale e i dati macro dell’Ue hanno la cadenza lenta e funebre di un de profundis. L’indice del sentimento economico pubblicato dalla Commissione europea confermava infatti la fase di debolezza e vedeva un calo diffuso in tutta l’eurozona, con le riduzioni più vistose proprio nelle economie più sviluppate. Se in media la zona euro perde 1,5 punti, la frenata è di 2,3 per la Germania, di due punti per la Francia, di poco meno per l’Italia. Italia in cui la gravità della situazione è testimoniata dall’ennesimo record storico negativo, con la fiducia delle imprese registrata dall’Istat scesa ad aprile ai minimi da dieci anni, ma solo perché lì si fermano le serie storiche, passando dall’88,6 di marzo all’87,6 del mese che sta per chiudersi.
Qualcosa con cui fare i conti, perché al netto del senso di responsabilità, a fronteggiare la situazione attuale con urgenti e inderogabili riforme sia economiche che istituzionali si troveranno partiti rivali fino all’altro giorno che ora tornano in coalizione, con più di un distinguo e mal di pancia. Ma tant’è, non c’è più tempo da perdere. Lo conferma ancora l’Istat, secondo cui la discesa dell’indice di fiducia è determinata soprattutto dal tracollo nel settore dei servizi, con un arretramento più contenuto per manifattura e costruzioni. E se il presente per l’industria non è brillante, neppure le aspettative future lo sono, con gli ordinativi interni visti ancora in calo e una prevalenza di pessimisti anche per le commesse estere. La riduzione dell’attività manifatturiera, visibile nel calo delle importazioni, dei consumi di energia elettrica e nell’aumento dei disoccupati, si manifesta anche in un’ulteriore riduzione della capacità produttiva, con il grado di utilizzo degli impianti che scende a quota 68%, quasi un punto in meno rispetto al trimestre precedente.
Nel corso del suo discorso programmatico di fronte ai deputati, Enrico Letta ha ricordato come banche e imprese debbano cooperare insieme per la crescita. E questo è il punto cardine, a mio modo di vedere: ben più dello spread in calo o delle aste piene o della Borsa che festeggia. Ieri, infatti, Bankitalia ha pubblicato il suo bollettino mensile e al suo interno non c’erano affatto buone notizie riguardanti il sistema bancario. Primo, peggiorano le condizioni delle imprese che risentono della fase ciclica negativa. Pesa l’accumulo di crediti commerciali nei confronti delle Amministrazioni pubbliche, oltre che la difficoltà di reperire finanziamenti. Benefici potranno derivare da una rapida attuazione del recente provvedimento sul pagamento di una prima parte dei debiti commerciali del settore pubblico. Secondo, l’offerta di credito è frenata dalla rischiosità dei debitori. Prosegue la contrazione del credito al settore privato. Vi contribuiscono sia il calo della domanda di prestiti, sia l’intonazione restrittiva dell’offerta di finanziamenti da parte delle banche, a sua volta connessa soprattutto con la crescente rischiosità dei prenditori e con la persistente frammentazione dei mercati della raccolta all’ingrosso. Per le piccole imprese le tensioni finanziarie sono accentuate dalla difficoltà di accedere a fonti di finanziamento esterne alternative al credito bancario.
Terzo, il flusso di nuove sofferenze sui crediti è aumentato per le imprese, soprattutto nel settore delle costruzioni, mentre per le famiglie esso è contenuto. Quarto, le rettifiche su crediti deteriorati sono in aumento, anche per l’azione della Vigilanza. La Banca d’Italia ha intensificato l’azione di vigilanza, con ispezioni mirate a valutare l’adeguatezza delle politiche attuate dalle banche per fronteggiare il deterioramento dei prestiti. Il rafforzamento della qualità degli attivi bancari e l’aumento del tasso di copertura, espresso dal rapporto tra le rettifiche di valore e le partite deteriorate sono necessari per preservare la fiducia degli investitori e continuare a garantire un adeguato flusso di credito a imprese e famiglie.
Quinto, il confronto internazionale tra i crediti deteriorati risente dei diversi criteri di classificazione. Se calcolati con criteri analoghi a quelli utilizzati da primari intermediari internazionali, i prestiti deteriorati delle banche italiane in rapporto ai finanziamenti complessivi risulterebbero inferiori a quelli desumibili dai dati di bilancio. Il tasso di copertura dei crediti deteriorati sarebbe inoltre più elevato di quello che si riscontra nella media di un campione di grandi banche europee e crescente nel tempo. Inoltre, nel confronto internazionale le banche italiane sono sfavorite dalla lentezza delle procedure di recupero dei crediti causata dai malfunzionamenti della giustizia civile, che allunga i tempi di permanenza negli attivi bancari dei prestiti in sofferenza e gonfia, a parità di altre condizioni, il peso delle sofferenze sui prestiti complessivi.
Sesto, cresce la raccolta al dettaglio, ma l’incertezza induce le banche a mantenere stabile il ricorso all’Eurosistema. La crescita della raccolta al dettaglio delle banche italiane conferisce stabilità alla provvista e riduce il funding gap. L’incertezza che continua a ostacolare l’accesso ai mercati all’ingrosso sta nondimeno inducendo gli intermediari a mantenere stabile il ricorso all’Eurosistema e ad aumentare le attività stanziabili. Capito perché Saccomanni all’Economia, nonostante il no di Berlusconi? Le banche italiane, lo conferma ora anche Bankitalia, scontano un problema ulteriore, nell’ultimo periodo, oltre alla sottocapitalizzazione e all’indigestione di titoli di Stato che hanno in pancia: proprio le sofferenze, finora un problema eminentemente spagnolo.
In Spagna, infatti, questo problema è al centro della crisi fin dal 2007-2008, quando i cosiddetti non-performing loans cominciarono a salire esponenzialmente per il crollo del mercato immobiliare, immediatamente riverberatosi sui mutui facili concessi dagli istituti nell’era della bolla di Zapatero. Con l’aggravarsi della crisi e la crescita esponenziale della disoccupazione, il dato ha raggiunto alla fine dello scorso anno la percentuale mai raggiunta di quasi il 13% sul totale dei prestiti concessi. In Italia non si è conosciuto un collasso del mercato immobiliare come quello spagnolo, ma a causa dell’aumento della disoccupazione dalla metà del 2011 le banche italiane hanno conosciuto un’accelerazione delle sofferenze che sta prendendo una traiettoria spagnola, seppur ritardata nel tempo ma molto acuta. Come dimostra uno studio di JP Morgan, il rischio è che questo trend – se non si inverta rapidamente e decisamente il dato di occupazione e crescita – rischi di diventare un pattern perfettamente simile a quello spagnolo, ovvero portare a un futuro prossimo di ulteriore sofferenza per le banche italiane e, quindi, di ulteriore contrazione del credito a imprese e privati.
Non lo dice il pessimista Bottarelli, lo ha confermato Bankitalia nel suo bollettino. Eppure, Francia, Italia e Spagna sono i tre paesi che nel mese di marzo hanno visto la maggior crescita di inflow nei depositi, rispettivamente 16, 15 e 11 miliardi di euro e anche questo è stato confermato da Bankitalia, parlando di crescita della raccolta al dettaglio. Il problema è che invece di essere utilizzato come cuscinetto per un surplus di fondi che vada a garantire la restituzione dei soldi presi in prestito dalla Bce nelle due aste Ltro (le banche italiane non hanno ancora restituito praticamente niente all’Eurotower, pessimo segnale), sembra che quel denaro sia stato canalizzato ancora e soltanto nel mercato obbligazionario interno.
Nel solo mese di marzo, le banche spagnole e italiane hanno acquistato titoli di debito dei loro paesi rispettivamente per 16 e 11 miliardi di euro, totalizzando un totale di 30 miliardi di euro di acquisti a testa nel primo trimestre, contro i 16 miliardi della Francia: ho la netta impressione, che anche l’asta di ieri abbia beneficiato di copiosi acquisti domestici e magari di qualche fondo giapponese.
E quando non ci sarà più denaro per le banche di quei paesi per acquistare debito? O quando i fondi pensione di quei Paesi avranno allocato al 100% i loro portafogli in titoli di Stato? O, peggio ancora, se il valore di quei titoli scenderà a causa della risalita dello spread e di nuove turbolenze? Ieri, nel silenzio più generale dei media impegnati a glorificare l’asta del mattino e il +2% del Ftse Mib, la Bce ha inviato la sua risposta alla Corte costituzionale tedesca, dopo la bocciatura senza precedenti da parte della Bundesbank del programma di acquisto di titoli di Stato Omt: per la Banca centrale europea, «i timori di inflazione sono infondati, poiché il volume dei bonds non cresce, a differenza della Fed che punta a pompare più denaro nell’economia».
Draghi si prepara a tagliare i tassi e punta a sbloccare il sistema anti-spread, ovvero sta andando alla guerra contro la Germania. Il bollettino di ieri di Bankitalia ci conferma che il nostro sistema è fragile e il rischio di sindrome spagnola non è peregrino: attenzione, quindi, ai falsi entusiasmi di partenza. Occorrono misure concrete e pressoché immediate. La calma sui mercati non è infatti destinata a durare a lungo e se non si mette mano, al più presto, al perverso ingorgo che blocca e manipola il meccanismo di trasmissione/erogazione del credito, le promesse di Enrico Letta – no all’Imu, no all’aumento dell’Iva, sì a una politica di crescita – rischiano di restare belle intenzioni di un pomeriggio di primavera.
Di più, con il 60% circa di stock di debito ancora da collocare quest’anno, gli investitori esteri – non le nostre banche – accetteranno rendimenti più bassi, a fronte di una coalizione di governo che tornasse a litigare e ai distinguo? In bocca al lupo, presidente Letta.