“…è possibile delineare una democrazia che contiene una procedura di decisione orientata unicamente ai concetti di elezione e regola di maggioranza. Ciò sarebbe un modello puramente decisionistico di democrazia. Ma un concetto adeguato di democrazia non deve includere soltanto la decisione bensì anche l’argomentazione. L’inclusione dell’argomento nel concetto di democrazia fa di essa una democrazia deliberativa“.
Queste suggestive considerazioni monitorie di Robert Alexy meritano un’ adeguata attenzione se proviamo a misurarle con riguardo al nuovo disegno organizzativo che emerge dalla legge di riforma della Costituzione. L’obiettivo ma, meglio ancora, il risultato cui tale legge attende è, a detta del presidente del Consiglio Matteo Renzi, quello di impiantare in Italia una democrazia “decidente”, che dunque liberi l’azione dell’esecutivo dal “gioco” dei veti incrociati di partito e sollevi i processi di decisione politica dalle paludi di un bicameralismo perfetto.
In tale prospettiva devono spiegarsi, allora, alcune delle innovazioni apportate dalla legge di riforma tanto all’assetto della forma di governo parlamentare quanto ai caratteri della forma di Stato; come, in primo luogo, la scelta in favore di un assetto di bicameralismo differenziato, con una Camera che rappresenta il popolo ed è eletta perciò a suffragio universale e diretto; ed un Senato che rappresenta invece le istituzioni territoriali, ma in forma un po’ composita (poiché comprende consiglieri regionali e sindaci…), integrata peraltro dai cinque senatori nominati dal Capo dello Stato (un inciso: come si spieghi la ragione di questa prerogativa presidenziale che è ben diversa, per finalità, da quella prevista dall’articolo 59 della Costituzione vigente, non è dato però di capire).
Nello stesso ordine di idee, sembra andare anche la previsione che consente al Governo di farsi approvare dal Parlamento in tempi certi e brevi un ddl ritenuto essenziale per l’attuazione del proprio programma (articolo 72 u.c. Cost. novellato). Tale previsione introduce, infatti, una procedura che potremmo definire convenzionalmente “a scorrimento veloce” in quanto giustifica un sensibile abbattimento dei termini procedurali dell’ iter legislativo: iscritto il ddl in questione “con priorità all’ordine del giorno”, esso viene sottoposto alla pronuncia in via definitiva da parte della Camera dei deputati “entro il termine di 70 gg. dalla deliberazione”.
L’ obiettivo di fondo della nuova norma costituzionale sembra quello di semplificare entro spazi di tempo limitato il dibattito politico-parlamentare ed affermare, con il crisma del voto, la volontà determinata del Governo.
Infine, in modo coerente con il disegno delineato, si mostra l’approvazione di una legge elettorale di marcata impronta maggioritaria, mirata a premiare il partito (non, invece, una coalizione di partiti) che si mostra nella sostanza il più forte nei singoli collegi elettorali (ma non necessariamente nel consenso popolare).
Messe insieme, queste soluzioni tratteggiano di certo un modello di democrazia “efficientista” (non, tuttavia, anche necessariamente efficiente) ma connotata in modo evidente dalla forza del numero, dall’esaltazione della regola di maggioranza come metodo di decisione mentre poco assecondato appare lo sviluppo del discorso razionale attraverso il confronto pluralistico, necessario — come rileva Alexy — ad un’autentica democrazia deliberativa. Tanto, in definitiva, sembra allora poco in sintonia con il modello virtuoso vantato da questo autore, e più incline alla soluzione della democrazia decisionista (altro che “democrazia decidente”, come è stata appellata dal presidente del Consiglio).
Modi di leggere e vedere la democrazia, potrebbero replicare i non pochi fautori di questa riforma, che censurano la dialettica soltanto distruttiva — a loro dire — a cui si eserciterebbero sempre i detrattori di questa legge di riforma costituzionale. Modi di eludere la sostanza del costituzionalismo democratico, replicherebbero questi ultimi, che è fondato tra l’altro sull’istanza personalista e su quella pluralista, a cui deve conformarsi anche il modello di democrazia in quanto principio organizzatore dello Stato. A questo contesto, a ben vedere, resta estranea ogni inclinazione decisionista, quantunque mitigata dalla “forma” del governo parlamentare.
Non è peregrino chiedersi, invece, se la riforma costituzionale non finisca, una volta entrata a regime, per svilire di fatto il ruolo del Parlamento (o, almeno, della Camera elettiva, poiché l’altra Camera costituisce, almeno per ora, un salto nel buio) relegandolo nella dimensione angusta e deteriore di certificatore di volontà (del Governo) altrui, a cui esso è tenuto pure a provvedere in tempi brevi.
Resta da chiedersi, in conclusione, se convitato di pietra di questa riforma non sia nella realtà proprio il Parlamento ed il parlamentarismo come tale. Non più preordinato al controllo sull’operato del Governo, affidato da tempo alle sole minoranze parlamentari, il Parlamento parrebbe ora venire spogliato in buona sostanza della funzione — di rilevantissima importanza per la democrazia — di conferire visibilità e pubblicità al confronto dialettico tra le parti politiche. Quella funzione, cioè, che ha esaltato il parlamentarismo nell’era della democrazia multipartitica e che inevitabilmente ripugna alla logica pura della democrazia decisionista.