Che succede, anche i mercati si sono messi a fare e disfare i governi? Da quel che si vede in giro, soprattutto con la tempesta cominciata ai primi di agosto, sembra che stia avvenendo un vero passaggio di mano: non dalla politica all’economia, ma esattamente l’inverso. Ciò è vero per l’Italia. Si è diffusa l’idea tra Francoforte e la City di Londra, che Berlusconi non sia in grado di portare a casa un risanamento lacrime e sangue, il solo che potrebbe ridare fiducia nella capacità di far fronte al servizio del debito ed onorare i titoli di stato a scadenza. Ma l’Italia non è la sola. La stessa convinzione circola a Wall Street nei confronti di Barack Obama che nel novembre del prossimo anno si gioca la rielezione. In Portogallo, è caduto il governo del socialista Socrates. In Spagna si vota a novembre. l’Irlanda è già andata alle urne. La Grecia ha cambiato il ministro del Tesoro, ma forse sarà costretta anch’essa a sottoporsi al giudizio degli elettori. Può l’Italia fare eccezione?
Di fronte a una evidente crisi di leadership nei paesi occidentali, nessuno escluso (si veda la déblace della Cdu di Angela Merkel, ultima di una lunga serie), poiché come più volte si è detto la politica non tollera vuoti, sono i mercati ad occupare il campo. Mercati è una definizione pressoché metafisica. In pratica sono i grandi banchieri, finanzieri, uomini d’affari che muovono migliaia di miliardi di risparmi. Non proprio un manipolo di superpotenti, perché la realtà è infinitamente più complessa, ma certo l’oligarchia del capitale. Non è la prima volta. È accaduto ad esempio nei primi anni 90 in tutta Europa. Oggi, comunque, il potenziale di fuoco è persino maggiore.
Sono cambiate le cose là dove nuove coalizioni politiche si sono sostituite alle vecchie? Non esattamente. Più o meno tutti danzano sull’orlo di una nuova catastrofe. E non solo nell’area euro. Perché la Gran Bretagna di Cameron non sembra molto migliore di quella lasciata da Brown. C’è la big society, ma per ora è solo retorica così come, su sponde opposte, le grandi speranze obamiste. Dunque, una maggioranza diversa non è di per sé garanzia di immaginazione, governabilità e consenso, i tre ingredienti necessari per affrontare la crisi. Immaginazione perché è chiaro che bisogna tirar fuori idee nuove, nello stesso tempo visionarie e concrete. Governabilità perché se non si riesce a metterle in pratica si partecipa solo a inutili talk show televisivi. Infine il consenso. Occorre avere il coraggio di prendere decisioni impopolari, si sente dire (non ultimo da Giorgio Napolitano). Ma se non si conquista la mente e il cuore della gente, è solo un luogo comune.
L’operato del governo italiano giustifica il giudizio dei mercati? Guardando alla entità dei risparmi messi sulla carta (17,5 miliardi l’anno prossimo, 43 miliardi nel 2013 e 50 nel 2014) ebbene no. Se si analizzano, invece, gli strumenti con i quali andrebbero realizzati, le cose cambiano. Le risorse previste con la lotta all’evasione sono solo promesse, impegni tutt’al più. Così come i risparmi sui ministeri. Mentre la vicenda delle province mostra che il governo del centrodestra liberale è prigioniero degli apparati burocratico-amministrativi quasi fosse la vecchia Democrazia cristiana. Non parliamo della supertassa che entra e poi esce una infinità di volte, al pari dell’iva, o la trovata di togliere il calcolo del militare e della laurea dalle pensioni di anzianità. Che sono un problema, specifico dell’Italia, ma non si possono affrontare con improvvisate di ferragosto. Se poi si leggono le estemporanee dichiarazioni di ministri ben titolati, allora bisogna dar ragione a chi si disfa dei btp. Quel che non sono riusciti a inventare in questa estate rovente!
Dunque, siamo alla vigilia di una crisi di governo e magari elezioni anticipate volute dai mercati e sostenute dai loro interlocutori nazionali (banchieri, imprenditori, uomini d’affari, intellighenzia economica)? Il presidente della Repubblica non aprirà crisi al buio e non scioglierà le camere in presenza di una maggioranza, sia pur claudicante. Lo ha detto e lo farà. Niente governi tecnici, anche se la panchina è ormai affollata da riserve della Repubblica. Ma nessuno può giurare sulla tenuta dei ministri Pdl e soprattutto della Lega.
Le elezioni potranno cambiare davvero gli equilibri e creare le condizioni per una svolta? Oggi come oggi no. È chiaro a tutti. Un vero cul de sac. A meno che qualcuno non pensi a una riedizione della solidarietà nazionale, non prima (perché Berlusconi si oppone), ma dopo le elezioni, di fronte a un parlamento frastagliato e senza una maggioranza così chiara e netta da consentire il risanamento. Molto probabilmente è quel che bolle in pentola a Milano e a Roma, prima ancora che a Francoforte o a Londra dove, del resto, non operano mitici gnomi, ma persone normali, con cervelli che funzionano come quelli di tutti gli altri. Prima di partorire scenari futuribili, però, bisogna convincere quegli uomini, uomini qualunque anche se gestiscono miliardi, che l’Italia fa sul serio. In altri termini, questa manovra la deve realizzare fino in fondo il governo Berlusconi. Poi si vedrà. Se non ci riesce, è un fallimento per il paese non solo per il Cavaliere. Con conseguenze che nessuno riuscirà a gestire, né Bersani, né Montezemolo, né Draghi né Mario Monti.