La Russia ha un nuovo nemico, dopo le sanzioni di Usa e Ue: il prezzo del petrolio, sceso ai minimi da nove mesi a causa dell’aumento dell’offerta da parte di Opec e Stati Uniti che stanno inondando il mercato e dando vita a un offsetting dei timori per le crisi irachena e ucraina. L’International energy agency (Iea) ha tagliato le sue previsioni riguardo l’aumento del consumo globale per quest’anno a solo 1 milione di barili al giorno a causa delle condizioni recessive delle economie europee e della continua debolezza della ripresa a livello globale. L’extra-offerta è salita di ulteriori 300mila barili al giorno, rispetto a quanto precedentemente pianificato, e questo ieri ha spedito il prezzo del Brent a 102,5 dollari al barile, il livello più basso da inizio anno.
Il rapido cambiamento nelle dinamiche di mercato ha poi permesso ai Paesi aderenti all’Opec di creare nuovi e ampi stock al ritmo più veloce da otto anni a questa parte, creando di fatto un ulteriore cuscinetto difensivo in caso di shock sull’offerta da Iraq e Russia. Gli stock nei depositi sono saliti di 88 milioni di barili nel secondo trimestre, il massimo dal 2006 e nonostante questi siano ancora sotto la media a cinque anni, non sono più pericolosamente risicati come lo scorso inverno.
La Iea ha reso noto nel suo report mensile che il mercato del petrolio sembra «sufficientemente calmo nonostante i montanti rischi geopolitici, gli stessi che solitamente creano caos nel mondo produttivo del settore». Insomma, l’extra-produzione sta di fatto ridimensionando sui mercati i timori che giungono dai Paesi produttori, tramutatisi in focolai di guerra. L’output della Libia, ad esempio, è raddoppiato a 430mila barili al giorno in luglio rispetto a giugno, nonostante le continue tensioni tra le milizie rivali nel Paese, mentre l’Arabia Saudita ha portato la sua produzione a 10 milioni di barili al giorno, il dato maggiore dallo scorso settembre. Inoltre, la domanda petrolifera è scesa di 440mila barili al giorno in Europa e Usa in quell’arco di tempo, sintomo chiaro di quanto sia debole la ripresa: la Germania, ad esempio, nell’ultimo anno ha visto una riduzione della domanda del 3,9%, dato simile per Italia e Giappone.
Il calo dei prezzi, come vi ho detto più volte, non potrà che mettere pressione sulla Russia, la quale ha bisogno di un prezzo non inferiore a 110 dollari per bilanciare il suo budget, anche se il break-even reale è a 117 dollari al barile: se per caso il prezzo dovesse crollare in area 80 dollari, la Russia rischia di precipitare in una recessione profonda, essendo gli introiti maggiori garantiti proprio dal petrolio, non dal gas. E quel calo non è cosa poi così peregrina, per due motivi. Primo, la mole di contratti futures aperti nell’ultimo mese al Nymex di New York, con il nuovo record di volume e open interest raggiunto l’11 luglio scorso a quota 101.425 contratti, prima volta in assoluto in cui si supera quota 100mila, dopo il precedente record del 9 luglio sempre di quest’anno quando si toccarono i 99.520 contratti. Di più, da inizio luglio all’11 del mese il volume medio giornaliero di trading per Nymex Brent è stato anch’esso record con più di 104mila contratti.
Secondo, il fatto che la situazione in Iraq non dovrebbe in realtà preoccupare troppo dal punto di vista petrolifero. La crisi riguarda infatti la parte nord del Paese, dove vengono prodotti circa 360mila barili al giorno, corrispondenti solo al 12% dell’intero output nazionale che è di circa 3 milioni di barili al giorno. Di più, di quei 360mila barili, solo un terzo è destinato all’export, quindi se anche si dovesse bloccare del tutto la produzione nel nord, l’impatto a livello di mercato internazionale sarebbe minimo. C’è poi lo shale gas statunitense, che ha aumentato di 1,2 milioni di barili al giorno la sua produzione quest’anno, portando il totale a 11,5 milioni di barili. Non è quindi un caso se giovedì, durante una visita in Crimea, Vladimir Putin ha da prima utilizzato toni più concilianti rispetto al conflitto («La Russia farà tutto il possibile per fermare lo spargimento di sangue in Ucraina. Dobbiamo essere pronti a difenderci, ma non al prezzo di uno scontro con il resto del mondo. Dobbiamo costruire il nostro Paese con calma, dignità e in modo efficace, senza tagliarlo fuori dal resto del mondo»), ma poi ha lanciato un attacco quasi senza precedenti contro lo status di benchmark del dollaro nel mercato energetico, dichiarando che «la Russia deve perseguire il fine di poter vendere petrolio e gas in rubli a livello globale, visto che il monopolio del dollaro nel commercio energetico sta danneggiando la nostra economia».
E sempre giovedì, stranamente, il gigante energetico russo Gazprom ha pubblicato un report che ai più è sembrato un chiaro monito all’Europa rispetto al suo atteggiamento verso Mosca. Ecco il concetto più importante in esso contenuto: «La produzione commerciale di shale gas in Europa non può cominciare prima del 2016-2018, anche in caso di riscontri geologici positivi. Ma i volumi di produzione non porteranno grandi cambiamenti nel mercato europeo del gas a causa di un declino della produzione convenzionale di gas». Come dire, attenti perché l’inverno prima o poi arriva e il rubinetto lo apriamo o chiudiamo noi. Di converso c’è da dire che l’inverno mite dello scorso anno ha garantito l’aumento delle scorte per molti Paesi europei, i quali quindi potrebbero anche riuscire a passare i mesi più freddi senza dover sottostare a ricatti energetici e contando sul fatto che prima dell’inverno 2015 certamente la situazione russo-ucraina sarà risolta, in un modo o nell’altro.
C’è però qualcos’altro legato a quel conflitto che sta già facendo patire i Paesi europei, ovvero il bando sull’import imposto per un anno da Vladimir Putin su moltissimi prodotti europei, agricoli e non. Ne sa qualcosa la Spagna, dove il ministro per l’Agricoltura, Isabel Garcia Tejerina, ha chiesto e ottenuto un incontro a Bruxelles per discutere di eventuali compensazioni comunitarie per le perdite che il blocco deciso da Mosca sta determinando. Il governo spagnolo ha stimato che i danni per il comparto agricolo ammonterebbero a circa 337 milioni di euro, circa l’1,8% dell’export spagnolo, ma l’opposizione socialista ribatte alzando la cifra a 581 milioni.
Lo scorso anno sono stati esportati dalla Spagna in Russia 37mila tonnellate di pomodori, 35mila di pesche e 33mila di mandarini, stando a dati dell’Associazione dei piccoli coltivatori (Upa). Per Lorenzo Ramos, segretario dell’Upa, «potrebbe essere necessaria una compensazione da parte dell’Ue per le conseguenze delle sue decisioni politiche, altrimenti coltivatori che lavorano tutto l’anno non avranno nemmeno sufficienti introiti per coprire i costi di produzione». E che dire della Finlandia, dove il principale gruppo lattiero-caseario, Valio, ha lasciato a casa già 800 lavoratori negli stabilimenti di Haapavesi, Seinajoki, Vantaa e Lappeenranta a causa del minor numero di commesse determinato dal bando russo?
In Polonia, poi, il ministro dell’Agricoltura, Marek Sawicki, ha addirittura fatto appello all’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto), chiedendo che vengano prese misure di condanna verso Mosca, dopo che le stime hanno calcolato un danno pari allo 0,6% del Pil per il bando sull’export di frutta e verdura: «Pensiamo che la Russia abbia violato le leggi internazionali con il suo embargo. Se un membro del Wto pensa che un altro membro abbia adottato misure non in conformità con le regole del Wto stesso, quest’ultimo può chiedere una misura di mediazione», ha dichiarato Sawicki. In ultimo, la Repubblica Ceca si è già unita alla Spagna nella richiesta all’Ue di compensazione per le perdite già patite. Insomma, un bel guaio.
Ora, guardate questo grafico: dall’avvio delle sanzioni, l’indice S&P 500 della Borsa di New York ha stabilito nuovi massimi e le aziende Usa non stanno soffrendo affatto per l’embargo russo, a Mosca l’indice Micex sta performando alla grande, mentre c’è un unico grande sconfitto, l’Europa. Sicuri che ci sia convenuto sottostare ai diktat di Washington? Capito ora il motivo della tiepidezza di Angela Merkel?