L’Italia non fa in tempo a tirare un sospiro di sollievo per le buone notizie sull’aumento del Pil e dell’occupazione che finisce di nuovo dietro la lavagna. Il motivo è che, secondo i dati della Commissione Europea, siamo tra i Paesi dell’Unione che nel 2013 hanno evaso di più l’Iva. Il tasso di evasione è addirittura aumentato, passando in un anno dal 32 al 33,6%. Peggio di noi solo Romania, Lituania, Slovacchia e Grecia. Assai meglio, invece, Francia (8,9%), Regno Unito (9,8%) e Germania (11,2%). Ma, dato forse inaspettato, più virtuosi degli italiani sono gli spagnoli, che evadono “solo” il 16,5% e i portoghesi, fermi al 9%. In valori assoluti l’evasione dell’Iva è stata pari a 47 miliardi, rispetto ai 140 di gettito potenziale. Per intenderci, l’evasione è circa il doppio del gettito annuale dell’imposta sugli immobili.
Immancabile è stato il richiamo del Commissario agli affari economici e monetari Pierre Moscovici, il quale dichiara che la battaglia all’evasione è tra le priorità dell’agenda di questo esecutivo europeo.
Quali sono le implicazioni di questa notizia?
Nell’immediato, l’Italia si appresta a chiedere in sede europea una deroga al patto di stabilità per rilanciare la crescita: il monito lanciato dal Commissario fa presagire che la trattativa non sarà semplice. L’Iva, in effetti, è la più “europea” di tutte le imposte, essendo stata introdotta nel nostro ordinamento, circa quarant’anni fa, per recepire alcune direttive comunitarie volte ad armonizzare le imposte indirette nella Comunità europea. Tali imposte infatti incidono fortemente sull’effettiva realizzazione dei principi di libera circolazione delle merci e libera prestazione dei servizi che sono alla base dell’Unione. I nostri partner europei, dunque, facilmente tendono a vedere la mancata riscossione di questo tributo come una forma di concorrenza fiscale sleale, oltre che un segno di mancata credibilità nel saper governare i conti pubblici (il caso della Grecia insegna).
Più in generale, si è ormai consolidato un consenso a livello internazionale in base al quale la tassazione debba essere spostata delle persone (lavoratori, pensionati) alle cose (beni e servizi, immobili), per motivi di efficienza, legati cioè a minori distorsioni nelle scelte individuali e alla maggiore crescita. In effetti questo spostamento è quanto si è verificato negli ultimi decenni nei paesi maggiormente sviluppati. Ma gli alti tassi di evasione dell’Iva rappresentano l’immagine di un’Italia che si è conformata agli standard internazionali solo formalmente, confidando di fatto ancora sulla tassazione sui redditi da lavoro e capitale.
Veniamo dunque alla domanda: perché in Italia si evade tanto?
Sintetizzando, il fenomeno ha molto a che fare con la pressione fiscale. In Italia, rispetto ai paesi Ocse, il peso della tassazione sul Pil è il più elevato dopo Danimarca, Francia e Belgio (44,4%, dati Ocse per l’anno 2012). In Germania lo Stato ogni anno preleva attraverso le tasse “solo” il 37% della produzione, in Gran Bretagna il 35%, in Spagna e Portogallo circa il 33%, negli Stati Uniti il 24%.
Il primo modo di ridurre l’evasione è dunque ridurre la pressione fiscale: una cura dimagrante dello Stato.
Ma il peso fiscale, ancorché preponderante, non spiega tutta l’evasione in Italia. Come abbiamo visto, nei paesi con maggiore pressione fiscale l’evasione non è così elevata come in Italia. Qui subentrano altre considerazioni, tra cui: la specificità della struttura produttiva italiana, la chiarezza delle regole fiscali (leggi ben scritte), l’efficienza della macchina burocratica (meccanismi di riscossione) e della giustizia tributaria (certezza delle sanzioni).
In un studio pubblicato pochi giorni fa l’Ocse evidenzia che i redditi prodotti dalle piccole-medie imprese (pmi) italiane sono tra i più tassati dei paesi avanzati, specie i redditi da lavoro. Ora, se è vero che le pmi pesano per oltre il 90% sul tessuto produttivo in quasi tutte le economie avanzate, in Italia il fenomeno assume contorni ancora più significativi, in quanto esse impiegano oltre il 70% della forza lavoro e le micro-imprese, cioè quelle con 1-9 addetti, contribuiscono al valore aggiunto italiano per oltre il 25% (siamo dietro solo a Grecia, Lussemburgo e Norvegia). Sono proprio quest’ultime imprese, la spina dorsale e la specificità della produzione italiana, a soffrire maggiormente il peso della tassazione, in particolare a causa dei costi fissi (spese per la tenuta della contabilità, dichiarazioni, ecc.), pur a fronte delle facilitazioni fiscali previste.
La semplificazione fiscale è dunque l’altra strada da percorrere per evitare effetti redistributivi perversi, a danno cioè di chi ha minori capacità di “difendersi” (piccoli consumatori, piccole e micro-imprese).
Infine, è noto che l’incentivo a evadere le imposte è tanto maggiore quanto minore è la probabilità di essere scoperti o di essere sanzionati. Pertanto l’ammodernamento dei meccanismi di riscossione e di sanzione è un passo necessario per ridurre fenomeni fraudolenti.
Concludendo, per uscire da questa spirale non servono ricette magiche o richiami moralistici, ma riscrivere un patto di civiltà tra lo Stato e i cittadini, valorizzando le specificità Italiane.
Non più uno Stato paternalista, che per garantire tutto a tutti assume dimensioni spropositate e accetta ipocritamente tassi di evasione altrettanto enormi (magari confidando che i soldi rientrino dall’estero con qualche condono) essendo, così, forte coi deboli e debole coi forti, ma uno Stato “socio” di chi produce e investe, siano essi imprenditori o lavoratori. Nel quadro di competizione globale in cui ci troviamo e ci troveremo sempre più in futuro, non servono tanto discussioni di principio intorno allo Stato, ma argomenti di buon senso e decisioni ispirate da sano realismo: poche regole ma precise, poche tasse ma chiare. Stiglitz, premio Nobel dell’economia, ha scritto che un sistema tributario ideale dovrebbe essere ispirato a 5 principi: efficienza, equità, semplicità, flessibilità e trasparenza.
Una riforma del sistema tributario che vada nel senso di un maggior equilibrio tra intervento pubblico e libertà individuali, anche in ottica di maggior equità distributiva, e una cura dimagrante dello Stato che, riducendo il peso della burocrazia, liberi risorse per abbassare le imposte su imprese, lavoratori e famiglie, appaiono oggi quanto mai urgenti.
In questo senso, la promessa riduzione delle imposte sugli immobili, oltre che farci andare (inutilmente) contro l’Europa e in direzione opposta agli standard internazionali, non rischia di penalizzare ulteriormente gli enti locali (specie quelli virtuosi) e di rinviare ancora il tema della riduzione della spesa pubblica centrale?