“Un impegno costruttivo è di vitale importanza nel momento in cui l’Europa si confronta con minacce quali l’estremismo islamico, le migrazioni, la “grandeur” russa e il cambiamento climatico. Tutto ciò può essere affrontato solo collettivamente”.Leggere sulla bibbia dell’euroscetticismo versetti di questo tenore è oggettivamente un po’ buffo. Scrivere, poi come continua nel suo appello il Financial Times, che con i referendum sull’uscita si celebra un tafazziano “atto gratuito di autolesionismo”, fa molto pensare alla massima di quell’Oscar Wilde che era convinto che gli dei punissero gli uomini realizzando i loro desideri. Quanto comunque pare evidente è che il meccanismo messo in moto sia sfuggito di mano. Non solo a chi ha giocato, nel tempo e nel luogo sbagliato, la carta di questo sommo azzardo per tenere insieme il suo partito (quello dei Tory) e oggi se lo trova più spaccato che mai mentre si rivolge pateticamente al suo elettorato pregandolo nella lingua delle litanie pro Europa tanto disprezzate. È sfuggito di mano a un’intera nazione che cammina in trans verso l’ignoto.
Perché al di là dei foschi scenari economici, che disegnano le analisi della Banca centrale europea, del Fondo monetario internazionale, della Bank of England, della Confederation of British Industry, della London School of Economics, della quasi totalità dei think thank, in caso di vittoria del sì, il vero sintomo di questa deriva collettiva è che alla fondamentale domanda di cosa accadrà il 24 giugno e nei giorni a venire dopo il referendum, nessuno sa dare una risposta compiuta.
Sì certo, l’articolo 50 del trattato di Lisbona prevede il diritto di recesso per gli Stati che volessero abbandonare l’Ue e due anni di negoziato per regolare i rapporti pendenti, ma tutti sanno che per le oltre ottantamila pagine di trattati e atti derivati non saranno sufficienti. Lo stesso Cameron parla di un buon decennio con il pessimo, lungo, corollario di incertezza che ne seguirebbe. E poi per ottenere cosa? Era il 2013 quando il premier inglese, nel suo intervento a Bloomberg in cui lanciò il referendum, disse: “Lasciare l’Ue non vuol certo dire lasciare l’Europa; questa rimarrà il nostro più grande mercato per molti e molti anni e per sempre il nostro vicino geografico”. Le carte geografiche in effetti sono insensibili alle decisioni umane. Gli affari no. E qui sta il busillis, sia perché l’accesso al più ricco mercato del mondo non sarà “gratis” e richiederà simili sacrifici di sovranità rispetto a quelli di cui ci si vorrebbe liberare, sia perché tra i pro-Brexit le visioni sul futuro sono molte e tutte alternative.
Cosa accadrà ai tanti cittadini inglesi residenti nell’Ue – oltre un milione, ad esempio, le frotte di pensionati inglesi residenti in Spagna dove godono dell’assistenza sanitaria locale – e ai tanti cittadini europei sul suolo britannico? E delle società europee stabilite nel territorio inglese come di quelle inglesi stabilite nel territorio Ue? Cosa sarà della incredibile mole di legislazione “unionista” che direttamente, attraverso i regolamenti, o indirettamente, attraverso le direttive, pervade gli assetti regolamentari del Regno (Boris Johnson parla spesso del “64% di leggi dettate da Bruxelles”)? E, soprattutto, che ne sarà appunto degli affari? Continuerà a esserci libertà di scambio delle merci senza dazi e barriere non tariffarie con il vasto mercato continentale dove la GB indirizza il 43,7% del suo export (223 miliardi di sterline nel 2015)? E i servizi, prendiamo quelli bancari o assicurativi che stanno così a cuore a Londra, potranno continuare a essere prestati liberamente nel continente? Cesserà completamente la libertà di movimento dei lavoratori che ha reso facile alla tech industry attrarre i migliori talenti sul mercato del lavoro?
La risposta a questi quesiti passa per una visione del dopo su cui non solo non vi è identità di vedute tra i sostenitori del “leave party”, ma neanche lo straccio di un dibattito. Semplificando, lo scenario in effetti può essere almeno triplice, con profonde implicazioni.
La prima prospettiva è il transito della Gran Bretagna nello Spazio economico europeo (See) insieme a Norvegia, Liechtenstein e Islanda. È il cosiddetto modello “Norvegia”. Se così fosse l’impatto di una Brexit sarebbe certamente meno traumatico (esistono proiezioni economiche al riguardo). L’Inghilterra continuerebbe a essere parte di un’area in cui sono assicurati i cardinali principi di libertà di circolazione delle merci, dei capitali, delle persone e dei servizi. L’accesso al mercato sarebbe garantito, il diritto di stabilimento delle società come delle persone salvo senza le implicazioni istituzionali e politiche dei trattati Ue. Non ci sarebbe una politica commerciale comune, oggi in capo a Bruxelles, ma la situazione, anche alla luce della trattativa condotta da Cameron e alle tante clausole di “opt out” di cui gode la Gran Bretagna non sarebbe lontana dall’attuale.
Questo scenario viene dato però tra i più improbabili. Intanto perché una delle più potenti spinte della campagna per uscire deriva proprio dal voler controllare l’immigrazione intra-Ue e questa scelta implica appunto la libertà di circolazione. Poi perché, paradossalmente, per ottenere i vantaggi di mantenere lo sbocco al mercato Ue dei propri prodotti e servizi la Gran Bretagna dovrà, esattamente come prima, adeguarsi alla odiata normativa europea che appunto regola il mercato. Le battute sulle banane funzionano in campagna elettorale e l’eccesso di zelo di Bruxelles le merita, ma nessuno ha mai visto funzionare un mercato senza un processo di armonizzazione e regolamentazione che renda la competizione possibile e giusta. L’unica differenza in questa prospettiva sarebbe che la Gran Bretagna non potrebbe concorrere a plasmare queste regole, ma le verrebbero sostanzialmente imposte come accade appunto oggi alla Norvegia e agli altri paesi dello See. Si aggiunga che i membri See pagano, per godere dei benefici del mercato unico, sebbene in forme diverse, un contributo economico all’Europa che per la Norvegia è stato pari a 106 sterline pro capite , solo il 17% in meno rispetto contributo netto del Regno Unito di 128 sterline pro capite (dati disponibili del 2011).
Subito dopo, quale evento meno traumatico in una scala di valori economica, viene il cosiddetto “modello Svizzero”. Un bouquet di accordi bilaterali che consenta all’Inghilterra di costruirsi un Europa à la carte nei settori di interesse. In aree quali: la libera circolazione delle persone, le barriere non tariffarie, gli appalti pubblici, le assicurazioni, l’agricoltura, i trasporti aerei e terrestri, la prevenzione delle frodi e molte altre ancora la Svizzera e l’Ue hanno firmato accordi internazionali. Esistono attualmente circa 100 trattati bilaterali tra il paese elvetico e l’Unione (e già solo questo potrebbe dare un idea più realista della mole del lavoro successivo). Attraverso l’adesione all’Efta (European free trade agreement, di cui la Svizzera è parte con in paesi dello See da cui la stessa si affrancò con un referendum) e i trattati sulle barriere non tariffarie, la Svizzera ha raggiunto un buon livello di integrazione nel mercato unico non lontano da quello dei paesi See.
Anche in questo caso tuttavia la Svizzera sostanzialmente “importa”, oltre alle merci e ai servizi, la legislazione Ue, il che significa che anche la Svizzera limita la sua “sovranità” per accedere al mercato Ue. Non esistono accordi globali che coprano la circolazione dei servizi e la libertà di stabilimento delle imprese e questo costringe gli istituti finanziari svizzeri ad affacciarsi sul mercato europeo attraverso società controllate con sede a Londra (per il momento). Anche la Svizzera fornisce un contributo finanziario per l’Unione europea, che negli ultimi anni ha una media di circa il 53 sterline pro capite, il 60% in meno rispetto al contributo netto del Regno Unito.
Quanto tuttavia sia in questa opzione che in quella precedente deve ben essere tenuto a mente dai sostenitori del “leave”, che credono che alla fine sarà giocoforza per l’Ue sottoscrivere accordi di libero scambio con la Gran Bretagna, è che tali accordi richiederanno l’approvazione unanime di tutti i 27 rimanenti membri dell’Unione (e del Parlamento europeo). In sostanza, mentre, ad esempio, la Germania con la sua industria automobilistica e la sua manifattura in genere avrebbe un forte interesse ad accedere al mercato inglese, potrebbe non essere così per altri paesi che potrebbero rallentare o addirittura bloccare l’intesa.
L’ultima ipotesi che viene particolarmente temuta sul piano degli effetti sul Pil inglese dei prossimi anni (ma anche europeo e mondiale) è che nessun accordo si faccia e che la Gran Bretagna continui a commerciare con i suoi vicini europei sotto l’ombrello della World trade organization (Wto). In qualità di membro della Wto, le esportazioni britanniche verso l’Ue e gli altri membri della stessa Wto sarebbero soggette alla tariffa della nazione più favorita nei paesi importatori. Dunque, per quanto (forse) basse in questo scenario, vi è da aspettarsi il risorgere delle barriere doganali tra Inghilterra ed Europa. Inoltre, dal momento che nell’area dei servizi i progressi della Wto nel processo di liberalizzazione sono modesti, l’impatto su questa area strategicamente molto importante per Londra sarebbe devastante. Non vi sarebbe più libera circolazione dei lavoratori e sarebbero possibili restrizioni valutarie.
Certo, gli inglesi sarebbero totalmente liberi di negoziare accordi commerciali con tutti i paesi in particolare quelli extra Ue, ma dal momento che il Regno Unito è un mercato da circa 60 milioni di persone e quello Ue, senza di loro, da circa 450 milioni, il suo potere contrattuale sarebbe grandemente limitato e il rischio, per usare le parole di Obama, di finire in “fondo alla coda” molto concreto. Per quanto allora paradossale possa apparire, se dunque si mettono da parte idee puerili sulla sovranità, che nel XXI secolo, tolti i casi della Corea del nord o del Venezuela, è un concetto dinamico e relativo – si pensi solo all’impegno internazionale assunto di recente dal Governo inglese di inviare i suoi sottomarini nucleari nella costa est degli Stati Uniti, alla base di King’s Bay, dove vengono caricati i missili nucleari americani – il sì al referendum potrebbe non cambiare significativamente, nel medio periodo, i rapporti tra Ue e Gran Bretagna rispetto agli attuali. Quanto risulterà inevitabile all’alba di una vittoria del sì, per una Gran Bretagna in preda all’incertezza, sarà sedersi a un tavolo e negoziare in soldi di sovranità il vitale accesso al mercato europeo con soluzioni che tanto meno saranno dolorose (in termini di Pil), tanto più si avvicineranno allo status quo.