Chi governa in Italia? Anzi chi comanda? Governare e comandare non sono la stessa cosa, com’è ovvio, ma il punto interrogativo vale in entrambi i casi. L’ultima baruffa è scoppiata sulla Tav. Hai voglia a invocare il contratto di governo, su questo punto è vago: un po’ rivedere e un po’ migliorare. Poi salta fuori che va bloccata e lo sostiene persino il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, non solo Luigi Di Maio, ansioso di recuperare consensi dopo il pasticcio combinato con il decreto cosiddetto dignità che ingessa il mercato del lavoro e solleva un’ondata di proteste tra gli imprenditori, anche tra i leghisti. Preso in contropiede, Salvini s’inalbera, Conte arretra sostenendo che non è all’ordine del giorno, i no Tav soffiano sul fuoco e Beppe Grillo dice che tanto, la democrazia è morta ed è meglio ricorrere alla sorte.
Il Governo appare sempre più un autobus guidato dai fratelli Marx, quanto alla plancia di comando, viene spartita, anch’essa, come le aziende pubbliche, tra due capi politici che pensano soprattutto a smontare quel hanno fatto i predecessori. Più che il Governo del cambiamento, sembra una officina di sfasciacarrozze. Altro che la rottamazione renziana, questo è il regno dei decostruttori. Finora i giallo-verdi si sono contraddistinti per un furore iconoclasta che li ha portati a smantellare pezzo a pezzo l’eredità del governo Renzi: dal Jobs Act all’aereo di stato, dalle infrastrutture all’immigrazione, dalla Cdp alla Rai e alle Fs, non c’è nulla che si salvi, e fra poco toccherà anche ai servizi segreti. Oltre Rousseau, siamo arrivati a Robespierre.
Questo furore, insieme alla voglia di appropriarsi dei gangli del potere, sembra l’unico, vero cemento di una coalizione divisa su tutto e impreparata a tutto. Lo dimostrano gaffe come quella di Di Maio che in televisione, senza che nessuno lo contraddica, dice di voler spendere 300 milioni di euro per tagliare il costo del lavoro del 10%, mentre secondo calcoli prudenti ci vorrebbero almeno 50 miliardi.
Ma ancor più lo rivela la partita delle nomine. Torna il vecchio spoils system, la divisione delle spoglie tra i vincitori, ma c’è qualcosa persino di peggio, perché i distruttori della vecchia classe dirigente mostrano di non avere una classe dirigente di ricambio. Per sopperire, lisciano il pelo a ogni lobby, consorteria, clientela, compresi i boiardi di Stato, come ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera. Tra l’altro, colpisce che tra il personale politico portato alla ribalta ci siano avvocati (tanti e non solo meridionali), burocrati, professori, professionisti improvvisati, ma non imprenditori a nome dei quali sia la Lega sia a modo suo il M5s pretendono di parlare.
Di Maio con il suo primo decreto ha fatto pasticci e continuerà a farlo con l’Ilva e con l’Alitalia, costringendo la Cassa depositi e prestiti a intervenire. Quanto costerà ai contribuenti? Si può rischiare il risparmio postale per operazioni di puro potere? L’Ilva appare chiaramente come una partita politica non solo al fine di accontentare la frangia ecologista, ma per dividere il Pd ingraziandosi Emiliano e soprattutto per colpire Carlo Calenda, il nuovo arcinemico. Quanto a Salvini, dopo aver incassato un successo anche mediatico con la linea dura sui migranti, deve subire il borbottio del Nordest che adesso chiede la riduzione delle imposte e un bel condono fiscale. E qui entra in ballo il ministero dell’Economia.
Giovanni Tria ha trasformato palazzo Sella in un vero e proprio fortino. Ha ceduto sulla Cdp dove il M5s ha imposto Fabrizio Palermo come amministratore delegato, ma in cambio ha salvato il ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, ed è riuscito a nominare direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera, uno dei burocrati più brillanti e leali alle istituzioni. Ora il ministro e i suoi collaboratori si preparano alla madre di tutte le battaglie: la Legge di bilancio. Salvini vuole l’avvio della flat tax, Di Maio pretende il reddito di cittadinanza (almeno in parte), Paolo Savona chiede 50 miliardi per investimenti pubblici. Tria avverte che tutto deve restare dentro i limiti stabiliti. Il tetto del 3% non si sfonda, dall’euro non si esce, bisogna negoziare, certo, ma non al fine di allargare la spesa corrente. Una linea che non sembra compatibile con le pressioni delle truppe gialloverdi.
Ogni giorno che passa si apre un fascicolo sul quale i gialli parlano con una lingua diversa dai verdi. E non si sa a nome di chi parlino Conte, Tria e Moavero, la troika dei tecnici senza radici politiche. Il presidente del Consiglio mostra di navigare a vista e cambia rotta a seconda del vento, dipende se spira dal Quirinale, da Francoforte, da Bruxelles o dalle pendici del Vesuvio. Tria soprattutto si difende. Moavero continua a giurare fedeltà allo schieramento atlantico-occidentale, salvo poi essere spinto verso gli Urali e la Siberia dalle continue esternazioni di Salvini e dalle sue scelte concrete, come affidare la presidenza della Rai a un giornalista ormai domiciliato in Svizzera che si è distinto per le sue posizioni anti-Ue e filo-Putin.
Non c’è bisogno di stare con l’opposizione per notare che così il Governo non può andare avanti. Anche la colla del potere è destinata a sciogliersi a mano a mano che finiscono le poltrone da spartire. La resa dei conti verrà a settembre e, come in ogni tiro alla fune che si rispetti, qualcuno finirà con il didietro per terra.