Scrivere oggi di sussidiarietà – in un tempo nel quale la politica risulta ancora prigioniera di posizioni irrazionali e di grida assordanti – potrebbe sembrare del tutto fuori luogo. Quasi una concessione intellettualistica o alla memoria di un lessico antico.
In realtà non è così: ce lo suggerisce la società italiana, ce lo propone l’Europa, ce lo chiede il contesto globale nel quale viviamo. L’idea della sussidiarietà riemerge con forza in Italia e in Europa tra le due guerre, dopo il crollo economico e finanziario del 1929, quando in tutti i Paesi sviluppati cominciarono a farsi strada le convinzioni di dover puntare ad una nuova funzione degli Stati e a nuove relazioni tra di loro e con la società, per creare le condizioni più favorevoli alla crescita economica e sociale. I poteri finanziari e industriali europei videro minacciata la loro influenza e la loro stessa sorte – anche perché prendevano piede con forza nuovi scontri di classe – e favorirono, invece, la loro alleanza con i regimi totalitari che portarono l’Europa alla catastrofe.
Da queste ripetute, profonde e sanguinose crisi prende piede un’idea diversa e più mite della politica, una visione che, dalla filosofia, muove verso la pratica delle riforme costituzionali e di una nuova democrazia, fondata sul primato dei cittadini e della loro possibilità di partecipazione, piuttosto che sulla forza assoluta dello Stato e delle sue alleanze particolari.
De Gasperi chiede ai cittadini italiani di rimboccarsi le maniche e di promuovere la ricostruzione. Non è la proposta di una supplenza alla politica, perché quella sarà una stagione di riforme radicali e determinanti per la modificazione degli equilibri sociali, per rivoltare le zolle della società e rianimare la vitalità quasi spenta. È piuttosto la coscienza forte che lo sviluppo vero di un popolo non è mai il risultato solo di una azione dall’alto, quanto la combinazione di iniziative e responsabilità di tanti, per non dire di tutti.
La sussidiarietà trova poi il suo orizzonte più ampio ed efficace nella costruzione europea, non soltanto come accordo tra Stati, ma come impegno sinergico di questi per l’allargamento dei confini della collaborazione economica e sociale, come orientamento di azione dei cittadini, delle famiglie, dei singoli operatori economici in un contesto sempre più ampio e aperto.
I movimenti di crescita sociale che hanno accompagnato l’Italia alla fine degli anni sessanta – le proteste dei giovani e dei lavoratori, le rivendicazioni di un nuovo rapporto tra capitale e lavoro, la prima liberazione delle donne, la stessa moltiplicazione di iniziative imprenditoriali come fenomeno sociale – sono, insieme, il primo risultato e il nuovo punto di partenza di una evoluzione democratica che vive l’idea della sussidiarietà come una stella polare che attrae dal profondo della nostra cultura sociale.
La vitalità della società italiana – le propensioni alla partecipazione, all’iniziativa e alla responsabilità – trovano però il sistema politico ancora stretto nella gabbia della “guerra fredda”, dello scontro ideologico reale o simulato. Schegge di violenza impazzita esplodono così negli anni, riportandoci ad una verticalizzazione della politica che sfocerà poi – negli anni novanta – nello scontro campale tra “politica” e società civile. Una politica corrivamente decisionista tenta di assumere le redini dello Stato e della società: la prima stagione del regionalismo prende i caratteri di un neocentralismo statalista, i poteri locali sono spesso piegati a logiche di interesse particolare, i soggetti sociali sono condotti ad una posizione di neo-collateralismo corporativo.
Le pagine più recenti sono note e ancora calde. La svolta di massa verso una democrazia bipolare di stampo occidentale ha aperto un nuovo orizzonte di maturazione, dove la sussidiarietà potrebbe trovare una coniugazione completa se la politica – nel suo insieme – abbandonasse la drammatizzazione strumentale e virtuale e si volgesse, responsabilmente, come classe dirigente, al bene del Paese nel suo complesso.
La crisi delle ideologie porta con se tutte le potenzialità di una politica temperata, che faccia della poliarchia politica e istituzionale – ovvero del governo di tante responsabilità ai diversi livelli – il suo filo conduttore; che faccia della crescita della responsabilità sociale non una semplice bandiera ma il suo asse portante di sviluppo democratico e di nuova emancipazione individuale e collettiva. La società civile organizzata, le comunità sociali, i cittadini, sono tutti chiamati ad una nuova stagione di responsabilità, nei contesti locali, in Europa, nel mondo. La politica deve orientare e garantire questa libera crescita nel convincimento forte che il potere è un luogo vuoto, e che può essere riempito – ai vari livelli – solo dalla coscienza della propria storia di popolo, della propria identità, di una forte responsabilità civile e politica.