A Bossi, come a molti leghisti, stanno sullo stomaco quelli che loro chiamano “i democristianòni”, con sprezzante riferimento a certe prassi della prima Repubblica. Non hanno magari tutti i torti, tranne che su un punto: non un alto e scafàto papavero della vecchia piazza del Gesù, ma un semplice dirigente di periferia, avrebbe affrontato e risolto un caso come quello di Flavio Tosi in tempi molto più rapidi, e soprattutto in modi molto meno ridicoli, di quello che ha fatto l’odierna via Bellerio.
Dopo aver minacciato tuoni e fulmini contro la “pretesa” del sindaco di Verona di inserire il suo nome in una serie di liste alle imminenti elezioni comunali, fino a sanzionarlo di sfratto dal Carroccio, il vertice leghista si è ridotto a discutere di quanto grande dovesse essere la preposizione “per” davanti al nome del sindaco uscente. Nome che è entrato non soltanto nelle varie civiche a suo sostegno, ma addirittura – fatto pressoché inedito – nel simbolo ufficiale della Lega assieme a quello di Sua Maestà Bossi. C’era proprio bisogno di inscenare una recita siffatta per settimane?
In realtà, quanto accaduto certifica ciò che è ormai palese da tempo, e che Stefano Folli a suo tempo ha condensato in un’efficace immagine in un’intervista a IlSussidiario.net: “L’imperatore non controlla più il suo impero”. I segnali sono ormai molteplici. Il modo in cui Bossi si sta comportando ricorda singolarmente l’autunno del patriarca così magistralmente descritto da Garçia Marquez. Un giorno tuona e minaccia a dritta e a manca da un palazzo in cui è sempre più solo e malconcio, e spara sul Cavaliere; il giorno dopo gli strizza l’occhio, dichiarando che tornare ad allearsi con lui sarà inevitabile; ma intanto il movimento gli sta scappando vistosamente di mano.
Si addensa l’ombra di una tangentopoli lombarda in cui il ruolo di Davide Boni appare quanto meno dubbio; non sono state fornite spiegazioni sui disinvolti investimenti esteri del tesoriere della Lega; Velina Verde sparge veleni interni a nastro; i congressi provinciali stanno registrando il consolidamento di Maroni. E il caso-Verona è solo il più vistoso di una linea di faglia che ormai corre dal Piemonte al Veneto. Nel quale ultimo stanno per celebrarsi finalmente gli ultimi congressi provinciali in sospeso (Padova e soprattutto Treviso, la provincia più leghista d’Italia), ma su cui continua ad aleggiare l’ipotesi dell’ennesimo rinvio di quello regionale. Dove Maroni, via Tosi, intende sferrare un assalto forse decisivo alle posizioni di Bossi, difese da oltre una dozzina d’anni dal fedelissimo Gianpaolo Gobbo.
Nessuna eco, nel frattempo, c’è stata sull’incisiva lettera fatta girare nei giorni scorsi da due leghisti veneti di assoluto rilievo come Marzio Favero e Bepi Covre. In cui venivano posti problemi concreti sui quali misurarsi, al di là degli editti di via Bellerio e dei bellicosi proclami dei suoi occupanti. La questione posta nel documento è chiarissima. Venticinque anni (un quarto di secolo…) dell’era-Bossi non hanno prodotto risultati sostanziali, per cui è essenziale cambiare un po’ tutto, dalla strategia agli uomini. Non si vive di sole minacce di sconquassi, tanto più che alla secessione non ci credono se non un po’ di ultras. Il Nord, nella stragrande maggioranza, non crede neppure alla Padania: la Lega è costretta a ricordare non solo all’esterno ma anche a suoi autorevoli iscritti (vedi proprio Tosi) che essa sta al primo punto dello statuto; ma anche quando ha raggiunto il massimo dei consensi (come nel 1996 e nel 2008), è riuscita a convincere solo un elettore settentrionale su cinque.
Una parte consistente, probabilmente maggioritaria, del suo elettorato l’ha votata piuttosto nella speranza che fosse capace di far passare quelle riforme di sistema che il Nord in particolare aspetta e chiede inutilmente da decenni. Invece, in una lunga stagione di governo, ha finito per rivelarsi subalterna all’alleato Berlusconi perfino nelle sue personali grandi e piccole grane. E qui oggi sta lo snodo vero per una Lega chiamata a rinunciare al “tutti dietro a Bossi” per passare a un più razionale “tutti attorno a Bossi”. Dove, come in ogni partito vero, la strategia non è decisa da un monarca sempre più ridotto a un Re Travicello, ma dai cosiddetti sudditi. Ormai decisi a conquistarsi il diritto a diventare ex.